Il futuro non si prevede, ma l’intelligence l’anticipa
Alberto De Toni al Master in Intelligence dell’Unical: ecco l’approccio giusto alle sfide del mondo globale
C’è una differenza fortissima, che i più non afferrano perché sembra sottile, tra due concetti: complessità e complicatezza.
Eppure proprio in questa differenza c’è la chiave per rispondere alle sfide della postmodernità.
È solo uno dei punti chiave della corposissima lezione tenuta da Alberto De Toni, rettore dell’Università di Udine e segretario generale della Crui (Conferenza dei rettori delle Università italiane) al Master in Intelligence dell’Università della Calabria diretto da Mario Caligiuri, subito dopo i saluti del rettore Gino Mirocle Crisci.
Ma in cosa risiede il problema sollevato da De Toni? «All’esame delle questioni complicate si applica il metodo analitico, che risulta inapplicabile, invece, ai problemi complessi».
A questo punto sorge spontanea la domanda: cosa c’entra questo ragionamento con l’intelligence? Centra eccome, visto che l’intelligence, che è un metodo della conoscenza, si occupa essenzialmente dei sistemi complessi (politici, economici o entrambi allo stesso tempo) e che non c’è sistema più complesso della contemporaneità globalizzata.
Proprio in questo quadro di interdipendenze totali – tra sistemi, poteri, comunità e cittadini – l’intelligence diventa una scienza della complessità indispensabile per «vivere all’orlo del caos».
Già: tra gli scopi dell’intelligence c’è anticipare il futuro e «il futuro può essere anticipato solo captando i segnali deboli, che poi sono quelli che consentono di capire l’andamento delle cose». Altra differenza pesante ma dall’apparenza sottile: De Toni ha parlato di anticipazione e non di previsione (di più: «Il futuro è imprevedibile», ha chiarito il segretario della Crui), lasciando intendere che l’intelligence è essenzialmente una disciplina pratica, visto che l’anticipazione del futuro si compie mediante azioni e che la previsione, invece, è un’attività teorica.
Al riguardo, sempre De Toni ha chiarito che in questa mancata distinzione ha pesato non poco la differenza di approccio di due scuole di pensiero: quella che risale a sir Francis Bacon, rivolta alla pressi, e quella crociana, prevalente nella cultura continentale e italiana in particolare. I due metodi non sono necessariamente in conflitto: «Certo, non c’è nulla di più pratico di una buona teoria, ma la teoria si costruisce a partire dalla pratica». Ma perché questa complementarietà, implicita nel ragionamento di De Toni, si affermi per davvero occorre superare gli attuali steccati scientifici, tuttora troppo rigidi, in favore di un approccio… complesso, che va dalla interdisciplinarietà, praticata ancora con timidezza nelle istituzioni culturali, alla transidisciplinarietà, guardata invece con sospetto da molti addetti ai lavori.
E questo approccio sinergico vale non solo a livello conoscitivo (meglio ancora: gnoseologico) ma anche nell’organizzazione delle attività. In questo caso, il segretario della Crui si è servito di un concetto della psicologia delle famiglie e, per spiegarsi meglio, ha distinto due codici di comportamento: quello materno, in cui prevale la protezione e l’appartenenza, e quello paterno, in cui invece prevalgono l’incentivazione e il merito. L’esempio per eccellenza di istituzione materna è la Chiesa cattolica, tra l’altro la struttura dimostratasi più resiliente nella storia, mentre istituzioni paterne sono le imprese, magari considerate nell’accezione weberiana.
Va da sé che nessuno dei due modelli si è mai presentato puro nell’esperienza storica e che per il funzionamento delle istituzioni sono necessari ambedue i codici. E non è detto che la competizione, che è un prodotto dell’applicazione estremizzata del codice paterno, sia sempre preferibile alla cooperazione, che invece deriva da un’attitudine materna che si proietta nel concetto di fraternità.
A volte, ha spiegato De Toni, la cooperazione è un potente strumento di selezione: non a caso le grandi aziende, raggiunto un certo livello, preferiscono formare dei trust anziché competere.
Inoltre, ha sempre evidenziato De Toni, nelle situazioni di grande complessità sono più efficaci le relazioni informali rispetto a quelle formali: le prime si basano sulla fiducia, le seconde su regole scritte. Ma nessun sistema di regole, anche scritte, può abbracciare una complessità spinta. L’azione di cambiamento in ambiti complessi deve porsi perciò obiettivi piccoli e raggiungibili, per allargare progressivamente l’area del coinvolgimento di tutti gli attori.
Ma basta l’intelligence per districare la matassa della complessità? Certo, è un punto di partenza ineludibile, ma la risposta definitiva è nell’approccio complessivo, come si intuisce dalla conclusione di De Toni: «Di fronte all’aumento della complessità esterna, ci sono due strade alternative: quella proposta da Ross Ashby di aumentare la complessità interna, ma è una via troppo costosa, oppure, come argomenta Niklas Luhmann, deselezionare la complessità esterna, ma questa è una soluzione eccessivamente rischiosa. Il risultato è che esiste sempre una divario tra la complessità interna e quella esterna. E questo gap lo possono colmare solo gli uomini, con la loro creatività e intuizione. Questo scenario apre spazi enormi per un nuovo umanesimo. Più complessità esiste nel mondo più libertà, più opportunità e più futuri esistono nel mondo. Con gli uomini dell’intelligence a svolgere ruoli chiave».
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