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Attentato di via Fani, iniziò dal porno la fine di Aldo Moro

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A fine anni ’60, oltre dieci anni prima del tragico sequestro delle Br, alcuni giornali rivelavano le abitudini quotidiane del grande statista della Democrazia Cristiana. Tra queste, il passaggio mattutino a via Fani, con tanto di scorta, prima di andare al “lavoro” nei vari ministeri o nelle sedi del potere scudocrociato. Moro era quindi un bersaglio mobile per i malintenzionati, grazie anche a queste rivelazioni. In prima fila in questa corsa allo scoop c’erano i giornalisti che lavoravano per Men, la prima rivista “per soli uomini”, inventata dall’editore Saro Balsamo, assai vicino agli ambienti craxiani, che avrebbe poi sdoganato la pornografia in Italia. Le firme di Balsamo venivano quasi tutte dall’estrema destra. Ma altri estremisti avrebbero approfittato delle loro indicazioni…

Diciamola tutta: il titolo è solo una provocazione. Il porno, con la tragedia umana di Aldo Moro, c’entra pochissimo. Né risulta che il grande statista, di cui quest’anno corre la celebrazione (commossa per le vecchie generazioni di reduci della politica, necrofila per i media) del quarantesimo anniversario della morte, sia stato in prima fila in qualche battaglia censoria.

Tuttavia, questa pista, a colpo d’occhio fuorviante, non è proprio falsa: ci fu un momento, a fine anni ’60, in cui una certa editoria prese di mira i vertici della Dc, incluso ovviamente l’allora Presidente del Consiglio.

Ci si riferisce al gruppo di testate che facevano capo a Saro Balsamo, l’editore siciliano che aveva deciso di cavalcare la tigre dell’emancipazione con le riviste per soli uomini, di cui fu uno degli inventori.

Tra queste spiccavano Men e Playmen, che si basavano su formule semplici ma di gran presa: scandali di vario tipo, polemiche, pezzi piccanti di costume e immagini di modelle e attricette discinte. Nulla di che, paragonato a quel che si vede oggi con gran generosità. Ma allora, nell’Italia di fine anni ’60, i giornaletti di Balsamo destavano scalpore. E provocavano grane giudiziarie: i primi otto numeri di Men furono sequestrati e Marcello Mancini, direttore della testata, finì in carcere.

Ma che c’entra in tutto questo Aldo Moro?

L’episodio relativo allo statista è ricostruito da Gianni Passavini, nel capitolo cinque del suo Porno di Carta (Iacobelli, Roma 2016), dedicato, appunto, alla storia editoriale di Balsamo e, più in generale, della pornografia italiana.

Il camaleontico editore, passato dalle riviste musicali per giovani a quelle per adulti in cui la musica era ben altra, nei primi anni ’70 fiancheggiava il Psi, che non a caso fu l’unica forza politica che espresse solidarietà a Balsamo durante la dura battaglia giudiziaria in cui erano finite le sue testate. E non a caso iniziò proprio allora l’amicizia che legò quest’ultimo a Bettino Craxi.

Secondo Passavini tra l’editore e gli ambienti socialisti non c’era una semplice simpatia, ma esisteva un rapporto organico, gestito in prima persona da Felice Fulchignoni, superfaccendiere passato senza colpo ferire dal fascismo all’area laica della Prima Repubblica e fondatore dell’agenzia Adn-Kronos.

Questa collaborazione aveva uno scopo: massacrare la Dc, tant’è che Passavini collega la campagna giudiziaria contro i giornali di Balsamo più a questioni politiche che non a presunte violazioni del comune senso del pudore, a dire il vero neppure tanto eclatanti.

Leggere per credere: «C’era davvero solo la volontà di tutelare un presunto comune senso del pudore dietro la solerzia di certa magistratura nel colpire Men o c’era qualche altro intento inconfessabile? Perché va detto che Men, oltre a fanciulle discinte solo per modo di dire, aveva pubblicato nei suoi primi numeri una serie di articoli che prendevano di mira i più conosciuti notabili della Democrazia Cristiana, il partito di maggioranza relativa, il partito di governo. Da Moro a Fanfani, da Colombo a Gronchi a Andreotti, i dirigenti dello “Scudo Crociato” erano stati messi sulla graticola da Lucio Delnò (pseudonimo redazionale) che su Men, usando lo stesso nome, firmava anche la rubrica “I libri che sanno di bruciato”, rivisitazioni di storie della letteratura messa all’indice».

Eccoci arrivati a Moro. Gli attacchi mediatici di Delnò ricalcano in parte le polemiche degli ambienti conservatori e neofascisti, esemplificati magistralmente dal deputato missino Nino Tripodi in un pamphlet che fece epoca: quell’Italia fascista in piedi! (riedito nel 2006 da Settimo Sigillo), in cui era raccontato il passato fascista della classe dirigente antifascista.

Moro veniva additato come «il peggiore dei traditori», reo di aver partecipato ai convegni sulla razza e ai littoriali organizzati dal fascismo. Ma questo è solo l’antipasto.

Il piatto forte che collega le polemiche dell’editoria protoporno al dramma di via Fani è un altro, sempre a firma di Delnò.

Eccolo: «L’onorevole Aldo Moro è vegliato, a turno, da ben quindici agenti di polizia. La sua abitazione, in via del Forte Trionfale numero 79, è sorvegliata da tiratori scelti e da campioni di “judo”, che si avvicinano minacciosi a chiunque si soffermi un istante in più nei dintorni. Nella sua presunzione, l’onorevole Moro è convinto che tutto quello che va male, in Italia, sia da attribuirsi alla sua responsabilità (…) In realtà bisognerà pur rivelare all’onorevole Moro che egli non è assolutamente in grado di peggiorare la situazione del nostro Paese, come, del resto, è assolutamente inidoneo a migliorarla. Per questo, nessuno può odiarlo sinceramente: il solo rischio che egli corre, è di scoprire che nessuno intende attentare alla sua vita perché nessuno lo giudica tanto importante. Se dovesse accorgersene, non ci sarà scorta in grado di salvarlo dal duro attentato che la delusione compie nel cuore degli uomini».

A rileggerle col senno del poi, queste espressioni mettono i brividi. Soprattutto, fa paura la rivelazione dell’indirizzo di Moro e dei sistemi di sicurezza che ruotavano attorno al leader della Dc.

Ma chi si nascondeva dietro lo pseudonimo di Lucio Delnò? C’è solo l’imbarazzo della scelta, a scorrere il carnet di collaboratori di Balsamo, per la gran parte provenienti dal settimanale di destra Lo Specchio: vi figura Enrico de Boccard (quello del convegno all’Hotel Parco dei Principi, a cui in tanti collegano l’avvio della strategia della tensione), l’ex repubblichino Luciano Oppo e l’ex dirigente missino e fondatore della compagnia teatrale Il Bagaglino Piefrancesco Pingitore.

Servirsi dei giornalisti fascisti come killer mediatici (allo stesso modo in cui alcuni ambienti si servivano dei fascisti punto come killer tout court) era un’abitudine piuttosto diffusa e non priva di efficacia: si pensi alla campagna stampa contro il ministro del Mezzogiorno e leader socialista Giacomo Mancini lanciata da Il Candido dell’ex repubblichino Giorgio Pisanò e sostenuta da ambienti socialdemocratici e socialisti ostili al politico calabrese.

Nulla di strano, quindi, che nel caso di Balsamo il mandato venisse da sinistra ma il grilletto fosse premuto a destra. Tanto più che le rivelazioni di Delnò non erano una prerogativa solo delle riviste di Balsamo. Una succosa anticipazione l’aveva fatta nel lontano 1966 proprio Pingitore, non ancora alla corte dell’editore siciliano sul primo numero de Il Bagaglino, il giornale della sua compagnia, nell’articolo Dio salvi il presidente.

Ecco il passaggio inquietante: «Il momento più pericoloso della giornata dell’onorevole Moro è l’uscita del mattino. Alle 8,30 o alle 9 lascia via del Forte Trionfale e sale sul sedile posteriore dell’auto ministeriale, preceduta da una Giulia bianca e seguita da un’altra Giulia blu. Sulla prima prendono posto i carabinieri, sulla seconda gli agenti. Il corteo si dirige per la via Trionfale, quindi a sinistra per via Fani e poi per via della Camilluccia fino alla chiesa di Santa Chiara dei due Pini».

Insomma, raccontare queste abitudini, ripetitive fino alla maniacalità, poteva esporre a rischi lo statista. Ed è impressionante che questi racconti emergessero da destra oltre dieci anni prima dell’attentato di via Fani.

Si chiedeva retoricamente Pingitore alla fine de suo articolo: «è al sicuro la vita del presidente? I 15 uomini che vegliano sulla sua incolumità sarebbero sufficienti a difenderlo da un Oswald italiano?».

La tragica risposta, scrive Passavini, «arrivò il 16 marzo del 1978 quando le Brigate Rosse riuscirono a realizzare ciò che la destra eversiva aveva sempre sognato di fare».

E stavolta senza porno, aggiungiamo noi.

 

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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