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Beth Hart & Joe Bonamassa, "caffè nero" per bluesman bianchi

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I due artisti tornano con Black Coffee, un album in cui rileggono i capisaldi della musica afroamericana: da Edgar Winter a Ella Fitzgerald

Un album di cover? E perché no? Soprattutto se le suonano i grandi. Black Coffee, pubblicato il 26 gennaio per la label statunitense Edel, è il prodotto di una joint venture che dura dal 2011: quella tra la cantante Beth Hart e il superchitarrista Joe Bonamassa.

I due, protagonisti di prove a dir poco superbe (Dont’t Explain e Seasaw), si fanno accompagnare da una banda dir poco di tutto rispetto: il batterista Anton Fig, già uomo di punta della Cbs e poi compagno di avventura di varie rockstar, a partire dai Kiss; il bassista Michael Rhodes, session man decano della scena musicale statunitense e non solo; Rob McNelley, un altro virtuoso della chitarra blues, che si sobbarca l’onere non facile di accompagnare le acrobazie di Bonamassa, e il tasterista Reese Wynans, un altro decano perfettamente a suo agio sia con i suoni vintage dell’Hammond sia con i ritrovati dell’elettronica.

Ad arricchire gli arrangiamenti provvede una sezione fiati formidabile, composta dai sassofonisti Ron Dziuba e Paulie Cerra e dal trombettista-trombonista Lee Thornburg.

Anche la Harth non resta da sola, grazie al supporto di tre coriste d’eccezione: le australiane Mahalia Barnes, già compagna di avventura di Bonamassa, Jade Macrae e Juanita Tippings.

E il risultato di questo supergruppo si sente, anzi si fa sentire: al pari dei maghi dell’antiquariato, Bonamassa e la Hart riescono a dare una patina di modernità al sound di nove classici, rispettandone l’impostazione originale. Non è davvero poco.

Si parte con il rock blues tiratissimo e carico di venature southern e soul di Give it Everything You Got, riedizione della hit contenuta in Edgar Winter’s White Trash del 1971. Bonamassa si scatena letteralmente, infiocchettando virtuosismi di gran gusto in omaggio a Winter, uno dei padri del blues bianco.

Con Damn Your Eyes, tratta da Seven Year Itch (1988), l’album che segnò il ritorno sulle scene della compianta Etta James, si cambia colore: il brano è un blues lento, profondissimo, in cui la Hart dà fondo a tutte le risorse della sua voce scura.

Black Coffee, interpretata con un piglio soul piuttosto aggressivo, è un doppio omaggio: a Ike & Tina Turner, che lanciarono questa canzone nel ’73 e agli Humble Pie di Steve Marriott (un altro grande compianto del rock) che ne proposero una cover l’anno successivo.

Lullaby of the Leaves è la prova del nove di tutto l’album. Sia per la virtuosa Beth, che si misura con l’interprete originaria, l’immensa Ella Fitzgerad (il brano è tratto da Hello Dolly, del 1964), sia per il prode Joe, che si sobbarca l’impresa di ammodernare il sound senza eccedere. E c’è di che applaudire: bellissima l’interpretazione vocale, notevole l’assolo di chitarra, dall’impostazione blues e dal suono rock, sofferto e tirato quel che basta. Forse solo Jeff Beck avrebbe saputo fare meglio.

La macchina del tempo dei due artisti fa un altro balzo all’indietro con Why Don’t You Do it Right, il classicone di Kansas Joe McCoy portato al successo da Peggy Lee, che lo cantò per il film Stage Door Canteen, del 1942. È il divertissment dell’album, interpretato con un gusto vintage, appena ripulito nel suono.

Un discorso simile vale per Saved, il mini Vangelo del rock’n roll lanciato da LaVern Baker e ripreso da Elvis Presley, Brenda Lee, Billy Fury, Elkie Brooks e The Band. Di fronte a questo popò di predecessori, i Nostri optano per la soluzione più semplice: il rispetto filologico della semplicità dell’originale.

Più libera l’interpretazione di Sitting On Top Of The World, su cui in passato si sono cimentati mostri sacri del calibro di Ray Charles, Howlin’ Wolf, B.B. King, Cream e Grateful Dead. La chicca in più è nel duello tra le tastiere di Winans, che spinge a palla le sonorità Hammond, e la chitarra di Bonamassa, più cattiva che mai.

Cambio totale di atmosfera per Joy di Lucinda Williams, che nell’interpretazione del nostro duo diventa un funky blues carico di effetti elettronici.

Con Soul On Fire, la Hart e Bonamassa riescono in un altro piccolo miracolo: far diventare pop Chet Baker. Non è davvero poco.

Black Coffee termina con un fuor d’opera: la cover di Addicted, l’hit del 2007 dei Waldek, i maghi austriaci dell’ambient. In questo caso, i Nostri riescono a riempire il sound, rendendolo meno elettronico e virandolo verso il soul.

Che dire? Prendete l’album e ascoltatelo più volte. E, magari, provate pure a fare il raffronto con le versioni originali dei brani: capirete il perché di tanto entusiasmo. Da ascoltare con le cuffie, ma anche in macchina, per rilassarsi o emozionarsi a seconda degli stati d’animo.

Virtuosi con l’anima, Beth e Joe hanno saputo colpire. Eccome.

 Da ascoltare (e da vedere):

Black Coffee

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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