Due millenni di guerre e spie. Barbero incanta l’Unical
Una lectio magistralis del celebre storico al Master in Intelligence dell’Università della Calabria diretto da Mario Caligiuri
La guerra? Una vicenda poetica. Anzi, la più poetica di tutte «perché eroismo e poesia si intrecciano nel corso dei secoli, a partire dalla tradizione omerica fino alla Prima Guerra Mondiale, quando nell’opinione pubblica si fa strada la convinzione che le guerre siano inutili».
Ma le guerre, visto che la storia universale è in buona parte racconto di vicende belliche, non le fanno solo i soldati. Le fanno anche e soprattutto i politici, quelli che scendono in campo in testa alle proprie truppe, e quelli che stanno nelle retrovie o nei palazzi governativi, relativamente al riparo dagli attacchi nemici.
E poi le fanno le spie, più di quanto non si pensi, perché le guerre si combattono pure con le informazioni. Quelle che consentono di vincere, se le si sa raccogliere, interpretare e utilizzare. O che, in caso contrario, costano vere e proprie batoste.
E questa dinamica, in cui la guerra si tinge d’eroismo a prescindere grazie all’opera congiunta di poeti e propagandisti (che spesso sono la stessa cosa) e in cui le spie hanno ruoli determinanti, è vecchia quanto l’uomo.
Se lo dice uno come Alessandro Barbero, docente di Storia medievale dell’Università del Piemonte Orientale e divulgatore storico di fama, crederci è davvero il minimo.
Barbero, forte di una bibliografia consistentissima, in cui ha affrontato un paio di millenni di vicende umane con la pignoleria del ricercatore puro e un gusto del racconto raro in Italia, ha tenuto una delle lezioni conclusive del Master in Intelligence dell’Università della Calabria diretto da Mario Caligiuri.
Circa cinque ore di lezione, impostate come un’intervista-fiume. Incalzato dalle domande di Caligiuri, il prof di Torino è riuscito in un’impresa non facile: rendere comprensibili (e moralmente digeribili) le categorie del realismo politico, che sono la bestia nera di chi tende a leggere la storia con un’inclinazione moralistica. Tra questi i propagandisti e i politici, che praticano il realismo politico in maniera coperta (e quindi più intensa) pur deprecandolo spesso in pubblico.
Procediamo per salti: Costantino il Grande vince a Ponte Milvio dopo aver avuto la famosa visione della scritta In hoc signo vinces, riferita alla Croce cristiana in un momento storico in cui il paganesimo era in crisi ma teneva botta.
Senza nulla togliere alla dimensione del miracolo, non si andrebbe lontano dal vero nell’ipotizzare che dietro quel messaggio e quella vittoria abbiano avuto un ruolo un’imponente attività informativa (grazie alla quale l’imperatore sapeva che i ceti emergenti della romanità erano convertiti al cristianesimo o simpatizzavano per esso) e una macchina propagandistica imponente.
Cadorna, invece, circa millecinquecento e rotti anni dopo, avrebbe subito la disfatta di Caporetto per aver sottovalutato le informazioni provenienti dalle intercettazioni dei telefoni da campo, dalle spie che operavano nelle zone neutrali (ad esempio, a Berna e Zurigo).
Nel mezzo, altri grandi hanno preso stecche abbastanza clamorose. Uno è stato Carlo Magno che si era convinto erroneamente di aver trovato un valido alleato nell’emiro di Saragozza durante la campagna di Catalogna.
E ciò apre un altro ordine di problemi: l’interpretazione delle fonti, cosa assai difficile nell’Europa semianalfabeta del Medioevo, che proprio allora e sotto la guida del primo sacro romano imperatore si apprestava a diventare una realtà geopolitica.
Barbero cita un caso emblematico: il Corano, che al di fuori della lingua araba e delle sue infinite, sofisticatissime sfumature diventa un testo qualsiasi e perde non poco della sua sacralità.
L’intelligence raggiunge livelli sofisticatissimi alle porte della modernità: se ne ha un saggio dai rapporti a dir poco ambigui tra la Serenissima Repubblica di Venezia e l’Impero Ottomono, nei quali le diplomazie doppie (e parallele) erano la regola e gli ambasciatori si dedicavano allo spionaggio con grande efficacia e, viceversa, le spie si prestavano alla diplomazia come e più dei funzionari ufficiali.
Un banco di prova di questa situazione intricata, in cui decenni di congiure raggiunsero la massa critica, è la battaglia di Lepanto, vinta dalle marinerie cristiane e nella quale l’unico ammiraglio ottomano che riuscì a salvare la propria flotta grazie all’uso sapiente delle informazioni fu Uluq Alì, un ex schiavo calabrese convertito all’Islam.
Con la modernità (e l’illuminismo) il trinomio politica-guerra-intelligence riceve una sua sistematizzazione grazie all’opera di due leader cinici, che seppero sfruttare la propaganda e lo spionaggio per ottenere risultati militari grandiosi.
La prima figura menzionata da Barbero è Federico il Grande di Prussia. Amico e protettore di Voltaire e autore dell’Antimachiavelli, un saggio giovanile in cui difendeva la moralità dell’azione politica, il re prussiano fece praticamente tutto il contrario di quel che sosteneva, almeno in politica estera: utilizzo le spie in maniera intensa e, fino a quel momento inedita, pratico la guerra di aggressione a più riprese e l’annessionismo più spinto. Ma, grazie al misto di spregiudicatezza e di ideali, riuscì a trasformare la Prussia in grande potenza e a creare il mito della nazione germanica.
Stesso discorso per Napoleone, che impose gli ideali della Rivoluzione sulla punta delle baionette e, tra un proclama e una battaglia, creò la prima polizia politica con l’aiuto di Joseph Fouché e mescolò la propaganda con un uso intenso della statistica.
Ancora più complesse le vicende del nostro Risorgimento, che risultano molto più complesse di come le abbia tramandate molta storiografia. Una complessità evidente a partire dai rapporti reali tra i suoi protagonisti.
Mazzini, ad esempio, era considerato un terrorista, che l’estabilishment sabaudo avrebbe volentieri mandato alla forca. Garibaldi era detestato da Cavour e temuto da Vittorio Emanuale II, per via della sua carica rivoluzionaria ed eversiva. Di più: re Vittorio Emanuele risulta dalle fonti non quel granché come condottiero militare e detestava, pienamente ricambiato, Cavour e la sua spregiudicatezza.
Solo una ricerca rigorosa, quindi onesta e approfondita, ha ammonito Barbero, può consentire un racconto autentico delle vicende storiche.
Come, ad esempio, per la vicenda del Forte di Fenestrelle, utilizzato per accogliere i prigionieri di guerra dell’esercito delle Due Sicilie.
Al riguardo, il professore di Torino è riuscito a compiere un’operazione verità importante, e, grazie a uno scavo intelligente negli archivi, ha smantellato la polemica neoborbonica secondo cui nell’antica fortezza della val Chisone i soldati meridionali sarebbero stati massacrati a migliaia.
Spionaggio e non solo. Soprattutto una visione lucida e rigorosa dei fatti, che riesce ad appassionare anche quando smantella le costruzioni propagandistiche e le letture ideologiche.
«Quella raccontata da Alessandro Barbero», ha chiosato non a caso Caligiuri, «è la storia delle vicende umane, dove le informazioni, a volte false, altre tardive, hanno un ruolo fondamentale, anzi fanno sempre la differenza. Ieri, come oggi e come domani, l’Intelligence si conferma fondamentale per comprendere lo spirito dei tempi».
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