Gli orrori delle foibe, la memoria condivisa che manca
I titini commisero verso gli italiani gli stessi crimini compiuti nei confronti di molti jugoslavi, avversari o non politicizzati
Guerra antifascista? Proprio no: è solo ciò che vuol far credere una certa sinistra, vecchia, becera ed estrema
Ma il ricordo dei profughi giuliano-dalmati deve essere una memoria condivisa.
Non può restare una prerogativa della destra e uno spot nefoascista
Sanremo, evidentemente, ci ha distratti un po’ tutti. Altrimenti ci saremmo accorti che nell’agenda politica c’è il dibattito sul giorno del ricordo dedicati ai profughi giuliano-dalmati, istituito 14 anni fa su iniziativa dell’allora deputato di An Roberto Menia (l’unica iniziativa seria che si ricordi di lui in quasi 20 anni di attività parlamentare, iniziati nel Msi e terminati in Fli).
Ci saremmo accorti che quest’iniziativa (sacrosanta) anziché stimolare la riflessione e aprire un dibattito serio in direzione di una memoria condivisa, sta prendendo una piega sbagliata. Anzi, due pieghe assurde, una peggiore dell’altra.
Da un lato assistiamo ai tentativi degli scampoli della destra radicale, eredi degli eredi, sicuramente poveri e un po’ degeneri, del Msi, di appropriarsi ancora del ricordo dei tragici eventi di cui furono vittime gli italiani che vivevano nella parte orientale dell’Adriatico.
Dall’altro lato siamo costretti a rivivere i rigurgiti di antifascismo di certa autonomia, che non perde occasione per scadere nella caricatura.
Come se ricordare le foibe, chi c’è morto dentro e chi è scappato per paura di finirci fosse ancora una cosa di destra.
Come se negare le foibe, e quindi la dignità ai morti e ai profughi, fosse un atto di difesa della democrazia e di estremo omaggio alla Resistenza.
Fa davvero male apprendere dell’aggressione subita a Pavia il 7 febbraio dai cittadini che partecipavano alla manifestazione organizzata dall’associazione Recordari ad opera dei consueti “autonomi” (in questo caso anche dal cervello).
E fa male sapere che, mentre ancora buona parte dell’opinione pubblica (soprattutto di sinistra) tace o nicchia, molti gruppi di destra radicale inondano le testate giornalistiche e il web di comunicati in cui annunciano questa o quell’altra iniziativa dedicata ai profughi di quasi ottant’anni fa. Come se quei profughi fossero ancora roba loro.
Segno che la memoria, nel nostro Paese, collassa per eccesso e non per difetto.
È la memoria miope, a sinistra, di chi non sa o non vuole vedere lontano e non ha la lungimiranza di scavare nella propria memoria e di frugare nei propri armadi per fare pulizia di quelle cose imbarazzanti che ancora ci sono e della paccottiglia ideologica che non serve più.
È la memoria presbite di chi, a destra, non sa guardarsi attorno e non si accorge che il mondo è cambiato e covare odi non serve più.
Certo, questo difetto visivo ha delle giustificazioni importanti.
È vero, ad esempio, che per oltre quarant’anni il Msi è stata l’unica forza politica che abbia coltivato, con orgoglio e con coraggio (e, ovviamente, col calcolo politico di chi cerca consensi) la memoria di quella tragedia.
Ma emanare una legge e istituire il giorno del ricordo non può e non deve significare sancire una verità di parte. Perché quei morti non hanno colori né orientamenti ma meritano tutti il rispetto che deve essere attribuito alle vittime di una violenza di massa.
Come fu violenza di massa quella subita dagli ebrei. Come fu violenza di massa quella subita, nell’Europa dell’Est, da intere popolazioni. Come è violenza di massa quella che oggi cerca facili bersagli negli “altri” e nei migranti e che a stento le istituzioni riescono a trattenere.
E allora val la pena riflettere su un dato. Ma per riflettere occorre, innanzitutto, cambiare le parole e, se proprio serve, puntare il dito su chi – per passione ma anche per calcolo – vuole che le parole restino quelle che abbiamo letto e ascoltato per mezzo secolo e continua a insistere su concetti come “fascismo” e “antifascismo”. Lo fanno ancora alcune fazioni dell’Anpi e dell’associazionismo partigiano.
Se scaviamo a fondo, ci accorgiamo tra gli italiani giuliano-dalmati, quelli che scapparono e quelli che morirono, i fascisti erano una minoranza. Ma ci accorgiamo anche che i fascisti c’erano pure tra i croati e gli sloveni.
Se scaviamo un altro po’, ci accorgiamo che, anche nel complessissimo mondo slavo dell’epoca i comunisti erano una minoranza e che nell’antifascismo slavo c’erano anche gli anticomunisti, come i monarchici di Draza Mihailovic, che furono anch’essi liquidati dai titini.
Ma se scaviamo ancora di più, scopriremo una verità più elementare: il lato destro dell’Adriatico, in cui nel giro dei primi trent’anni del XX secolo c’erano state trasformazioni politiche epocali, era una polveriera di tensioni etniche, covate a lungo e spesso stuzzicate ad arte dagli imperi, asburgico e ottomano, che avevano governato quell’area. E tra queste etnie in conflitto c’era anche quella italiana. Intendiamoci: erano in conflitto, per ovvie questioni di potere e ricchezza, le élite, non la gente comune, che si limitava a condurre la propria vita, senza odiare più di tanto, come dimostra ancora il numero di famiglie “miste” e “multietiniche” che hanno saputo resistere a più di un secolo di odi.
Ecco, con gli occhiali, rigorosamente bifocali, di questa consapevolezza si può vedere meglio. E allora le categorie di fascismo e antifascismo fanno un passo indietro e lasciano il posto alla verità terra terra di uno Stato, la Jugoslavia di Tito, armato fino ai denti e tutelato da Mosca, che aveva iniziato una guerra di annessione contro l’Italia, che invece in quel momento era una nazione perdente, per sottrarle porti importanti e territori ricchi.
Lo Stato di Tito si fece largo a spallate sui cadaveri di qualche milione di slavi (divisti tra tutte le etnie) e a danno di circa mezzo milione di italiani: i 350mila profughi, l’imprecisato numero di massacrati e infoibati e quelli costretti ad assimilarsi.
Ce n’è abbastanza per coltivare una politica dell’odio, no?
Ma di questa politica dell’odio i popoli non sono colpevoli. Le colpe sono un’esclusiva di chi attizza e continua ad attizzare l’odio attraverso l’incitazione e la rimozione, che è spesso, a sua volta, un’incitazione sotto mentite spoglie.
Quest’ultimo è il caso di una fetta, purtroppo ancora consistente, di certa intellighentsia italiana, che non è solo miope ma anche strabica. Ci riferiamo a quell’intellghentsia che continua a coltivare un mito acritico della Resistenza, che fu una storia grande e complessa, ma non una favola.
Ma peggio ancora fanno gli epigoni di quest’intellighentsia, troppo a lungo egemone: identificano la guerra di liberazione con le istanze di una sua sola parte: quella che coltivava, in maniera più o meno inconsapevole, altri progetti totalitari che, non trovando troppo sbocco in politica, sono ristagnati nella cultura, avvelenandola fatalmente. Come meravigliarsi, allora, se il ricordo di una tragedia, anziché pacificare gli animi, diventa divisivo?
Intanto, godiamoci Sanremo: qualche canzone d’amore, con questi chiari di luna, male non fa.
Saverio Paletta
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