La battaglia che cambiò per sempre la storia del Sud
A Civitate i Normanni vinsero la coalizione italo-sveva inviata dal papa. Il celebre scontro rivive nel racconto di Edoardo Spagnolo
Nel giugno del 1053 la pianura posta nei pressi della cittadina pugliese di Civitate, alla confluenza del torrente Staina nel Fortore, si riempi di soldati e cavalieri in armi. L’esercito normanno, che annoverava fra i suoi capi Unfredo, Riccardo conte di Aversa e Roberto il Guiscardo, fronteggiava un’armata eterogenea, radunata dal papa Leone IX, il cui nerbo era costituito da un corpo di fanteria di settecento svevi, ai quali si affiancavano schiere di armati giunte dalla Puglia, da Valva, dalla Campania, dalla Marsica e da Chieti; anche Romani, Sanniti, Capuani, Anconetani, Spoletini, Sabini e Fermani avevano inviato truppe in aiuto dell’armata pontificia.
La situazione dei normanni, alla vigilia della battaglia, appariva critica. La notizia dell’arrivo dell’esercito del papa, infatti, aveva indotto molte popolazioni residenti nei loro domini a negare ogni rifornimento. Gli approvvigionamenti, peraltro, erano già di per sé assai problematici, poiché le contrade italiane, in quel periodo, erano tormentate da una diffusa carestia. Tuttavia, scrive il cronista Guglielmo di Puglia, i capi delle forze normanne, sebbene privi di pane da tre giorni, “prendono le armi, e tutti preferiscono morire dignitosamente combattendo, piuttosto che tanti uomini, oppressi dalla fame, vadano incontro a una morte ingloriosa”. Seguiti da tremila cavalieri e da pochi fanti, i normanni attaccarono battaglia per primi. La forza d’urto dell’avanguardia, comandata da Riccardo conte d’Aversa, fu tale da scompaginare la massa dei soldati italiani, che fuggirono disordinatamente, abbandonando sul campo la fanteria sveva. Quest’ultima, affrontata da Unfredo e poi da Roberto il Guiscardo, venne prima accerchiata e infine annientata dopo un feroce e sanguinosissimo combattimento.
La battaglia di Civitate segnò, dunque, un punto di non ritorno nella storia del Mezzogiorno. Come ebbe a dire John Julius Norwich, essa fu altrettanto decisiva, per i normanni italiani, quanto lo sarebbe stata per i loro fratelli e cugini quella che avrebbe avuto luogo, tredici anni più tardi, a Hastings in Inghilterra: «Mai più sarebbero stati posti in discussione i diritti basilari dei normanni nell’Italia meridionale; mai più si sarebbe pensato a cacciarli dalla penisola».
Le vicende che condussero allo scontro avvenuto sulle sponde del Fortore più di nove secoli e mezzo fa sono state ricostruite dallo scrittore e storico irpino Edoardo Spagnuolo in una pubblicazione del 2017, intitolata appunto La contea di Puglia dalle origini alla battaglia di Civitate. 1042-1053, edita dalla Delta 3 di Grottaminarda.
Spagnuolo si è dedicato da quasi trent’anni allo studio della storia del Mezzogiorno. I suoi primi lavori, concernenti episodi del brigantaggio, catturarono fra l’altro l’attenzione di Paolo Mieli, che indicò a suo tempo la produzione del saggista avellinese quale esempio di revisionismo onesto, basato su una solida cultura e su uno studio paziente e metodologicamente ineccepibile delle fonti.
Di recente le opere di Spagnuolo sono state ampiamente utilizzate da Pino Aprile nella redazione del suo ultimo pamphlet storiografico-scandalistico Carnefici. Tuttavia l’autore irpino, mosso da un encomiabile senso di onestà e di dignità intellettuale, si è affrettato a smentire drasticamente qualsiasi affinità culturale e/o ideologica con il pirotecnico corsivista di Gioia del Colle in una nota apparsa su Facebook, che si concludeva con parole inequivocabili: «Non vorrei che qualcuno possa pensare che da parte mia ci sia una sia pur minima condivisione delle idee espresse in tale testo e dell’ambiente che gravita intorno a pubblicazioni di questo tipo». Naturalmente, subito dopo Spagnuolo è stato aggredito, more solito, da una pletora scomposta e inurbana di epifenomeni sudisti, spesso ingrossata da improbabili fake.
Pubblicazioni come La contea di Puglia dalle origini alla battaglia di Civitate ci mostrano, invece, il revisionismo che poteva essere: una rilettura seria e filologicamente corretta dell’uno o dell’altro episodio storico, condotta con sobrietà di toni e disinteresse di intenti. Un’ipotesi infelicemente naufragata nelle tristi derive terroniste e neoborboniche.
Lorenzo Terzi
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