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Terrorismo islamico, naufraga in Parlamento la legge antijihad

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Lo racconta il deputato Stafano Dambruoso durante il Master in Intelligence all’Università della Calabria

La dichiarazione di Stefano Dambuoso non è proprio una novità assoluta, soprattutto se si considera la tempistica del web. Ma resta importante.

Soprattutto è un pesante atto di accusa nei confronti della classe politica che si appresta a una campagna elettorale sciatta, condotta a colpi, soprattutto bassi, di sensazionalismo.

Eccola, così come l’ha raccontata il 13 gennaio nel corso del Master in Intelligence dell’Università della Calabria diretto da Mario Caligiuri: «La legge antiradicalizzazione», ha spiegato il deputato del gruppo Civici e Innovatori e questore di Montecitorio, «si è arenata il 22 dicembre al Senato, perché, evidentemente, i parlamentari erano presi da altre faccende e per tre ore di mancata discussione non si è potuto procedere al voto».

E viene il sospetto a sentire Dambruoso, autore di questo importante disegno di legge bipartisan (l’altro firmatario è il dem Andrea Manciulli), che tra i motivi di tanta sciatteria siano dovuti anche al fatto che questa normativa di prevenzione del terrorismo di matrice islamista (ma non solo) sia stata percepita come non immediatamente spendibile sul piano elettorale: «Mica possiamo aspettare 10 anni, mi ha risposto un collega parlamentare che è alla sesta legislatura e probabilmente sarà rieletto», ha commentato Dambruoso.

Ma cosa riguarda questo ddl non approvato perché il Parlamento ha preferito discutere a oltranza dello jus soli? Il titolo vero di questa normativa, piuttosto avanzata, è più che eloquente: Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice Jihadista.

Detto altrimenti, dovrebbe chiudere il cerchio delle riforme normative compiute con la legge 43 del 2015 che ha convertito il decreto 7 del 2015, che fu emanato in seguito allo shock provocato dal massacro nella redazione di Charlie Hebdo.

A dirla tutta, l’iter della legge antiradicalizzazione non è stato tra i più felici: presentata nel 2016 era passata alla Camera lo scorso luglio, con 251 voti a favore e 109 contrari.

Per essere più precisi, il Parlamento ha perso quasi due anni di tempo su una legge che riguarda un aspetto importante della sicurezza di tutti i cittadini (preferiamo quest’espressione, perché l’aggettivo nazionale suona troppo algido e potrebbe non rendere l’idea). In cosa consiste questo ddl? Il questore della Camera l’ha spiegato con una battuta: «Per evitare che da noi accada quel che è accaduto in Inghilterra e in altre zone calde dell’Europa: che continuino a formarsi degli jihadisti per autoreclutamento. Reprimere è importante, anzi a volte è essenziale, ma la prevenzione culturale è vitale: non vorrei che tra dieci anni i nostri figli si trovino ad avere a che fare con dei potenziali terroristi, come capita ai loro coetanei francesi».

La normativa abortita (anche se in questo caso si potrebbe parlare di gravidanza isterica) prevede una serie di iniziative di contropropaganda coordinate dallo Stato attraverso le prefetture. Questa contropropaganda si dovrebbe svolgere attraverso la specializzazione dei corpi di pubblica sicurezza (militari e civili) e all’interno di quei luoghi in cui può avvenire la radicalizzazione: carceri, come hanno ribadito vari e recenti fatti di cronaca, scuole e, naturalmente moschee. Più, ovviamente, il contrasto alla propaganda jihadista online.

La chiusura del cerchio è mancata. E dire che il cerchio era stato costruito bene. Forse una delle cose meglio riuscite di questa legislatura alla fine, che risulta tra le più contestate di tutti i tempi.

Infatti, non è un caso che il relatore del dl 7 del 2015 (Misure urgenti per il contrasto al terrorismo) e della relativa legge di conversione, sia stato proprio Dambuoso sulla base della propria esperienza di magistrato inquirente in prima fila nella lotta al terrorismo.

«Durante la mia attività ho potuto constatare l’evoluzione del terrorismo jihadista, dal modello quaedista, che tuttavia in parte presentava ancora delle forme canoniche, al modello Isis, che invece era completamente inedito».

Per questo motivo, ha specificato il magistrato attualmente in aspettativa, «abbiamo spostato in avanti la soglia della punibilità, includendo nella previsione normativa comportamenti che prima non erano sanzionati», cioè il cosiddetto autoaddestramento, l’organizzazione dei viaggi per i foreign fighters o per chi si reca all’estero a compiere atti di terrorismo e via discorrendo.

In altre parole, non è più necessario scovare un istruttore che impartisce ordini o dia una disciplina: è punibile anche chi passa ore al pc o allo smartphone per apprendere da appositi siti web (molti dei quali risultano difficilmente tracciabili perché fanno parte del cosiddetto deep web), come compiere azioni militari, compiere attentati, costruire armi o esplosivi.

Di più: «Possono essere monitorati anche spostamenti di piccole somme di denaro se risultano contestualizzati in ambiti e comportamenti di tipo terroristico».

La disciplina penale, ha ancora chiosato Dambruoso, «si è evoluta per specificità e complessità, perché è l’unico modo per garantire la sicurezza». La sfida, alimentata anche da un rapporto più stringente tra l’intelligence e la polizia giudiziaria, non è affatto banale: se da liquido il terrorismo diventa gassoso i metodi di contrasto devono adeguarsi.

«Il problema è evitare che le esigenze della sicurezza si traducano in compressioni forti dei diritti fondamentali, che risulterebbero inaccettabili nei nostri sistemi».

Già, ha concluso Dambruoso: «Le democrazie sono i sistemi più delicati e fragili: alterarne gli equilibri tra libertà individuali e diritti di partecipazione, cosa che può accadere nelle fasi di emergenza in cui a volte è l’elettorato stesso a chiedere misure pesantissime, significa comprometterli». Certo, a volte è il gatto che si morde la coda, perché «si interviene solo dopo che si sono verificate le tragedie».

Giusto. Ma allora una domanda è necessaria: come mai la prevenzione antijihad è naufragata nell’abulia politica? E, cosa più grave, proprio nel momento in cui le ambasciate di vari Stati chiedevano lumi su questa normativa allo scopo di importarla?

 

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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