Ma Lombroso fu il primo meridionalista
I tifosi dell’Atalanta hanno esibito uno striscione con l’immagine del papà dell’antropologia criminale per sfottere gli ultrà del Napoli. Subito si è scatenato il putiferio. I neoborbonici (e non solo loro) hanno gridato al razzismo, individuando in Lombroso per l’ennesima volta il teorico del pregiudizio antimeridionale. In realtà le cose non stanno così: lo scienziato veronese scrisse a inizio carriera “In Calabria”, un saggio che anticipava i temi più forti del meridionalismo classico. E a scorrere le sue opere principali non si trova traccia di razzismo. L’unico pregiudizio è proprio quello di certo mondo, intellettuale e accademico e non, su di lui
Dalla partita Napoli-Atalanta del 2 gennaio scorso dovremmo apprendere, una volta per tutte, una lezione: mai consentire agli ultrà di esibire simboli culturali, storici e politici. Ciò vale per le bandiere del disciolto Regno delle Due Sicilie, che è un pezzo importante della storia del Sud.
E vale, a maggior ragione, per l’immagine di Cesare Lombroso, il padre dell’Antropologia criminale, che con le faccende calcistiche e col mondo degli ultrà non dovrebbe avere a che fare neanche di striscio.
Anzi, ci si consenta una battuta: se Lombroso fosse vivo, oggi si interesserebbe non poco proprio al mondo degli ultras per approfondire le sue teorie sulla predisposizione genetica al crimine.
Ma studierebbe tutti gli ultrà e non solo quelli del Sud, perché, ed ecco il punto, Lombroso non fu il padre del pregiudizio antimeridionale, che esisteva comunque da prima che lui elaborasse la sua teoria del delinquente nato e prima dell’Unità d’Italia.
Certo è che lo sfottò dei tifosi bergamaschi che, a un certo punto, hanno esibito la foto dell’illustre criminologo in formato gigante è stato piuttosto pesante. Forse lì per lì i tifosi napoletani, molti dei quali sono digiuni di letture come i loro omologhi del Profondo Nord, non hanno capito.
Purtroppo hanno capito sin troppo molti personaggi in cerca d’autore che circumnavigano le curve del San Paolo a cui non è parso vero di poter pontificare sul razzismo antimeridionale, non solo sulle varie emittenti locali che campano di folclore, ma anche sui principali organi d’informazione, cittadini e non.
Certo, è vero che i tifosi dell’Atalanta intendevano fare del razzismo esponendo l’immagine di Lombroso, che anche loro considerano il papà dell’antimeridionalismo su basi scientifiche, quasi il teorizzatore di una presunta inferiorità razziale delle popolazioni del Sud. È falso che a Lombroso si attribuisca tutto questo.
Al contrario di quel che fanno i vari Domenico Iannantuoni (presidente del pittoresco Comitato tecnico-scientifico “no Lombroso”) Gennaro De Crescenzo (presidente turbofolk del Movimento Neoborbonico) e lo scrittore seriale della neoborbonica Magenes-Addictions Angelo Forgione, che sparano a zero a prescindere, cerchiamo di offrire qualche prova.
E queste prove, presentate in maniera succinta per non abusare della pazienza del lettore, rivelano l’esatto contrario di quel che intendevano i tifosi dell’Atalanta e il loro esegeti napoletani: non solo Lombroso non teorizzò alcun pregiudizio antimeridionale, ma, paradossalmente, può essere considerato il primo meridionalista, per motivi di anagrafe e di cronologia editoriale.
Questa prova è un libretto di facile reperibilità: In Calabria (l’edizione più diffusa è quella curata da Luigi Guarnieri per l’editore Rubbettino nel 2009), in cui Lombroso fa il resoconto del suo soggiorno nella Calabria Ultra Prima (l’odierna provincia di Reggio Calabria, più qualche pezzettino di Vibo e Crotone), avvenuto nel 1862, in qualità di medico militare. Tolta qualche classificazione antropologica, tra l’altro molto in voga nella cultura dell’epoca, in questo saggio non c’è traccia di pregiudizio razziale.
Tutt’altro: l’autore si concentra sui problemi sociali della Calabria dell’epoca, tra cui le forti disparità nella distribuzione della ricchezza, la povertà, spesso estrema, degli strati popolari, le lacune vistose nell’istruzione ecc. e lancia l’allarme, invocando l’urgenza di riforme.
Di più: con la tipica curiosità dell’antropologo alle prime armi, Lombroso elogia la creatività popolare dei calabresi, soprattutto delle culture albanese e grecanica. Scrive tutto quel che un intellettuale progressista dell’epoca avrebbe potuto scrivere. Ma lo scrisse prima.
Lombroso, spiega infatti la studiosa Maria Teresa Milicia nel suo Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso (Salerno, Roma 2014) pubblicò il suo resoconto dell’esperienza calabrese nel 1862 in Igea. Giornale d’igiene e medicina preventiva sotto forma di lettera e lo ripubblicò, senza modifica alcuna, nel 1863 sulla Rivista Contemporanea.
Se si considera che l’espressione Questione Meridionale fu coniata nel 1873 dal deputato lombardo Antonio Billia e che il rapporto di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino che dà il via al filone classico del meridionalismo, risale al 1876, a Lombroso si può attribuire senza alcun problema il ruolo del precursore.
Né Lombroso cambiò idea sul Sud, visto nel 1898 avrebbe riedito In Calabria con la collaborazione di Giuseppe Pelaggi, un medico di Strongoli, in provincia di Crotone.
Ma il vero ponte dell’asino è L’uomo delinquente, l’opus magnum di Lombroso. È il testo in cui lo scienziato veronese espone la sua teoria sulla tendenza genetica a delinquere. Ma soprattutto è un mattone terribile: 2.138 pagine su carta, che diventano 4.714 in e book. Ci si riferisce alla ristampa anastatica (cioè tal quale senza aggiungere o togliere nulla) fatta da Bompiani nel 2013 della quinta edizione risalente al 1897.
Data la mole e considerato anche lo stile piuttosto pesante dell’autore, è la classica opera più facile da citare che da leggere.
Ma occorre scorrerla un po’ per rispondere a una domanda banale: posto che, secondo Lombroso, delinquenti si nasce, è vero o no che i meridionali, sempre secondo lo scienziato veronese, sarebbero i delinquenti nati per eccellenza?
La risposta è no. Per capirlo basta utilizzare il motore di ricerca dell’edizione digitale e scrivere, per esempio, la parola Calabria. Questa ricorre solo 27 volte, un po’ poco per un testo di migliaia di pagine. Ed è collegata ai più vari argomenti criminali.
C’è, ad esempio, la comparazione tra le caratteristiche anatomiche di una prostituta di Reggio Calabria con quelle di una collega di Milano (che risultano simili), oppure si scopre che gli infanticidi commessi in Calabria sono uguali a quelli operati in Piemonte. Ma, a proposito di omicidi, si scopre che i calabresi accoltellano di più e i piemontesi preferiscono l’avvelenamento. Poi c’è un dato curioso: Cosenza, secondo le ricerche di Lombroso, era in cima alla lista per i comportamenti illeciti a sfondo sessuale, ivi inclusa la prostituzione, mentre in fondo alla lista ci sono le città del Nord-Est, oggi decisamente più libere del Sud conservatore. E via discorrendo. Ma non c’è nulla che indichi il pregiudizio antimeridionale. Anzi, un passaggio, a pagina 1.278 dell’edizione digitale, è chiarificatore. Riguarda il gergo dei delinquenti di fine ’800. Scrive Lombroso: «Mentre ogni regione italiana ha un proprio dialetto e un Calabrese non potrebbe comprendere il dialetto d’un Lombardo, i ladri di Calabria usano lo stesso lessico come quelli di Lombardia». Ovvero, parlano la stessa lingua da delinquenti.
Detto altrimenti, l’unica razza verso cui Lombroso ha praticato il razzismo è quella dei delinquenti, di cui non riuscì a provare l’esistenza ed è per questo che la sua teoria fu superata.
Il padre del pregiudizio scientifico antimeridionale fu semmai un seguace – tra l’altro, come ha dimostrato ancora Maria Teresa Milicia, mai troppo considerato dal maestro – di Lombroso: il siciliano Alfredo Niceforo, che basò la sua teoria razzista sullo studio delle usanze dei sardi.
Ma le stecche su Lombroso non le hanno prese, più o meno in buonafede, solo i revisionisti improvvisati e i giornalisti che hanno loro dato spago. Un esempio di errore illustre lo ha fornito nel lontano ’93 Vito Teti, etnologo e docente dell’Università della Calabria, nel suo La razza maledetta, uscito all’epoca in prima edizione per la romana Manifestolibri.
Nella riedizione del 2011 Teti ripete l’errore, ben esemplificato da un passaggio della Prefazione, in cui lo studioso calabrese mette nello stesso calderone Gianfranco Miglio, all’epoca teorico della Lega di Bossi, Lombroso e Niceforo. Ecco il passaggio: «Tornavano in auge, con qualche non sostanziale aggiornamento, le posizioni razziste del periodo positivista; adesso non c’erano più i grandi “meridionalisti e nemmeno forze politiche credibili, capaci di rispondere con argomenti convincenti e con progetti alternativi e concreti. Gianfranco Miglio, divenuto una star mediatica, non parlava più ovviamente, di razza, ma con i termini cultura, tradizione, identità ci riportava alle posizioni e alle distinzioni dei Lombroso e dei Niceforo». Con i due studiosi ottocenteschi Miglio aveva in comune solo l’estrazione positivista.
Ma la confusione di Teti emerge dalla disinterpretazione del Miglio-pensiero. Infatti, lo scomparso scienziato della politica non sostenne mai una inferiorità antropologica dei meridionali, bensì una loro alterità, che rendeva necessaria la costituzionalizzazione delle mafie proprio al fine di rendere più efficiente il sistema politico meridionale e far progredire il Sud verso forme politiche più razionali. Se proprio si volesse trovare un precedente a questa paradossale provocazione di Miglio, lo si dovrebbe cercare in Max Weber e non in Lombroso.
Allora, come mai tanto livore? Semplice: Lombroso ha la sola colpa, peraltro postuma, di aver dato il nome a un museo, visitatissimo. E ciò lo ha reso bersaglio di tanti personaggi a corto di idee che tentano di far politica alterando la storia. Lui non ancorò mai le proprie tesi a un territorio e a una popolazione in particolare, tant’è che si espresse anche sui bergamaschi: disse, sempre ne L’uomo delinquente, che a Bergamo c’erano più epilettici che delinquenti.
Anche su questo complimento certi ultrà dovrebbero riflettere, prima di tirar fuori gli striscioni a sproposito.
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