Tamarri e sfavillanti. Gli anni ’80 secondo John Diva
L’artista californiano, già songwriter per parecchi big, esordisce con Mama Said Rock Is Dead, un album pieno di hair metal d’annata che riporta alla Los Angeles degli anni di latta
Leggere le note biografiche, tra l’autoironico e il megalomane, pubblicate nel suo sito web è uno spasso.
John Diva (ma si chiama davvero così o è un nome d’arte?), nativo di San Diego, si definisce figlio di una ex groupie che lo avrebbe cresciuto a pane e rock (e, si spera per lui, svezzato altrimenti tramite qualche amica dei bei tempi…), la quale, un bel giorno gli avrebbe detto tra le lacrime che il rock è morto.
Da allora nel giovane, che si definisce il James Bond del rock ’n’ roll, sarebbe nato il sacro fuoco per la musica e il desiderio di smentire mammà, emulando in meglio la carriera di papà, musicista specializzato nel circuito dei casinò – e nei casini, aggiungiamo noi.
Ed eccolo intraprendere una carriera particolare: senza precedenti musicali degni di nota, Diva sarebbe arrivato a collaborare con i superbig degli anni ’80 in varie vesti: di songwriter, coach e arrangiatore. E non si scherza, visto che si tratta di nomi come Bon Jovi, Whitesnake, Van Halen, Aerosmith e Def Leppard.
Non è dato di sapere quanto ci sia di vero in questa autonarrazione piuttosto enfatica. Intervistato al riguardo, il biondo californiano ha dichiarato di avere in corso varie cause legali, al termine delle quali sarà dispostissimo a svuotare il sacco.
Fatto sta che il nostro, dopo una carriera da ghost writer per conto di tanta clientela, ha deciso di tentare il colpaccio da solo fuori tempo massimo: ha messo assieme un’ottima band e si è lanciato nei vari festival internazionali esibendosi in cover dei ruggenti ’80 con un logo che è un autentico programma autocelebrativo: John Diva And The Rockets Of Love.
Infine, grazie a un contratto con la label Steamhammer-Spv, è uscito da poco l’esordio Mama Said Rock Is Dead, un album ottantiano al massimo, pieno zeppo di hair metal iperderivativo e non poco debitore alle star di cui sopra.
Certo, se dovessimo giudicare la musica di Diva dalla foto di copertina ultratrash, in cui il Nostro sembra un incrocio tra le caricature di David Lee Roth e Vince Neil vecchia maniera, staremmo freschi.
Invece, grazie all’ottimo songwriting, alle capacità tecniche non indifferenti della band e alla produzione di Michael Voss, l’album risulta ben fatto, piacevole e credibile, a dispetto degli oltre trent’anni trascorsi dall’era gloriosa del pop metal.
Diva e i suoi ci danno davvero dentro con la serietà di antiquari consumati: bravissimi e affiatati i due chitarristi Snake Rocket e JJ Love, capaci di riff assassini e di soli mozzafiato, e ottima la sezione ritmica, costituita dal bassista Remmie Martin e dal batterista Lee Stingray, potenti e versatili ma mai eccessivi e fracassoni. E niente male il frontman, dotato di una timbrica a metà tra David Coverdale e Joe Elliot.
Con questi presupposti non c’è da meravigliarsi che l’open track Whiplash citi bene i Motley Crue più selvaggi con un sound aggiornato e più heavy in cui calzano a pennello anche i virtuosismi dei chitarristi.
E che dire di Lolita, il singolo apripista, in cui il riffing vanhaleniano fa da convincente sfondo a un refrain tipico dei Bon Jovi vecchia maniera?
La cadenzata Rock ’n’ Roll Heaven è un pezzo ruffianissimo che si rifà sfacciatamente agli Aerosmith, grazie anche ai roventi passaggi bluesy della chitarra e al coro da stadio.
Decisamente più hard, Wild Life rievoca gli Whitesnake di fine anni ’80 con un refrain caldissimo e le chitarre in gran spolvero.
I Bon Jovi fanno di nuovo capolino in Blinded, altro brano da stadio che sembra uscito dal classicone Slippery When Wet.
Nell’ammiccante Dance Dirty la lezione dei Def Leppard (con cui Diva aveva collaborato alla stesura di Put Some Sugar On Me) si fonde di nuovo coi Motley Crue più trucidi. Un bel pezzo per una lap dance d’epoca.
In un album così non poteva mancare la ballad. E difatti arriva puntuale l’evocativa Just A Night Away, un lentone che ricorda le vecchie feste dei liceali degli anni ’80.
Sempre sul filone dei Leppard l’intensa Fire Eyes, piena di bei riff e di atmosfere notturne.
La ritmata Get It On si muove a metà tra Whitesnake e Van Halen ed è dotata di un refrain intenso che sfocia in un coro scanzonato.
Piena di doppisensi e riferimenti espliciti, Long Legs In Leggings ricorda i Kiss del primo periodo senza trucco (per capirci Lick It Up e Asylum).
In Toxic emerge qualche leggera venatura dark che rimanda un po’ all’Alice Cooper di Constrinctor.
Chiusura in grande stile con l’ariosa title track, dal ritmo effervescente e dal coro puttanissimo.
Possiamo, anzi dobbiamo, non prendere sul serio John Diva. Ma dobbiamo anche ammirare la convinzione e la coerenza dimostrate nel tuffarsi in questa bella operazione nostalgia, orgogliosamente retrò e superbamente vintage. Già, in Mama Said Rock Is Dead c’è un’efficace sintesi degli anni di latta: i riff roboanti (e un po’ tamarri), i cori coinvolgenti e un po’ rozzi, i ritmi metal ma anche un po’ ballabili e le allusioni sessuali a gogò.
Una macchina del tempo per evadere negli anni in cui tutto sembrava possibile e in cui valeva l’illusione per cui volere è potere. Niente male davvero.
A bordo e rock on.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale di John Diva
Da ascoltare (e da vedere):
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