E il nu metal si tinge di pop. Il ritorno dei Papa Roach
Nel nuovo album Who Do You Trust? il quartetto californiano lancia una linea sonora più orecchiabile e mainstream e mescola con efficacia rock duro, rap e melodie radiofoniche
Quando si incide per le major, si vendono circa venti milioni di dischi e ci si imbarca in tour mondiali seriali, non ci sono storie: la tentazione del mainstream fa capolino.
E non deve meravigliare che questa tentazione seduca i Papa Roach, habitué delle classifiche internazionali e degli stadi, ed emerga prepotente nel loro ultimo Who Do You Trust?, uscito a inizio anno per la Seven Eleven e subito bombardato da giudizi più che contrastanti e paragoni ingenerosi, sia con il passato nu metal della band, sia con la produzione recente, come l’ottimo Crooked Teeth (2017).
Ritenuto da molti commentatori scialbo e confusionario e da altri (i più professionali, c’è da dire) interessante e innovativo, What Do You Trust? restituisce al pubblico una band in gran forma che, in effetti, dà un po’ l’idea di cercare a tentoni la propria direzione artistica. Ma lo fa con grinta, determinazione e classe e, soprattutto, con la consapevolezza che mettere d’accordo le vendite con la qualità non è proprio facile.
Il problema, allora, non è darsi al pop o al trap e infarcire il sound di elettronica, cose che il quartetto californiano fa con abbondanza.
La questione è il come: come si fa pop e trap e come si usa l’elettronica. E c’è da dire che, grazie anche all’ottima produzione di Nicholas Furlong, Colin Brittain e Jason Evigan (per la sola Top Of The World), i Papa Roach riescono a mescolare tutte queste cose poco rock con una certa efficacia.
Jacoby Shaddix dimostra una buona maturità artistica e un’ottima padronanza vocale sia nelle parti dure, che non mancano, sia in quelle pop in cui dà prova di un’ottima capacità melodica.
Inoltre, l’estrema varietà di suoni e atmosfere non impedisce al chitarrista Jerry Horton di sparare riff pesanti, con uno stile a volte prossimo al Tom Morello vecchia maniera, e la propensione per atmosfere più morbide non impedisce al bassista Tobin Esperance e al batterista Tony Palermo di esprimersi come si deve.
I risultati si sentono da subito nell’open track The Ending, un rock robusto dal tempo cadenzato e dall’andamento maestoso, in cui elettronica e potenza si fondono in buon equilibrio. Buona l’interpretazione di Shaddix, che passa da parti leggermente rappate a urla in scream ma sempre con l’occhio attento alla melodia.
Renegade Music è un’incursione ben riuscita nel rapcore alla Rage Against The Machine, in cui tuttavia il vocalist mantiene la propria personalità ed evita di scimmiottare il mitico Zach de la Rocha (che comunque viene omaggiato con un bel motherfuckers urlato come si deve). Notevole l’arrangiamento, basato su un riffing corposo e da una scansione ritmica potente e precisa.
Not The Only One è un simpatico crossover tra pop e rapcore, in cui Shaddix dà prova di grande flessibilità, passando dalla melodia radiofonica del refrain iniziale all’hip hop dello stacco centrale e culminando nel finale urlato.
La title track riprende l’alternanza tra melodia e rapcore, ma a parti invertite: stavolta le rime urlate finiscono nel refrain e le melodie nel coro, con maggiore efficacia dell’insieme.
La stessa formula ritorna in Elevate, ma con un songwriting più ruffiano che fa leva su un coraccio da stadio.
Come Around si avventura verso lidi più pop, con una melodia ariosa in evidenza. Ma non mancano le concessioni al rock tosto nella parte centrale del pezzo, che si imbizzarrisce sul riff micidiale di Horton.
Grande dinamica sonora e appeal decisamente radiofonico in Feel Like Home, in cui la band mescola con efficacia suoni pesanti e melodie leggere.
Le suggestioni da classifica prevalgono in Problems, una ballad gradevole dalle sonorità alternative rock.
In Top Of The World riprende il mix tra pop, rock e rap, con una maggiore presenza dell’elettronica e un coro ammiccantissimo.
I Suffer Well è un minuto e venti secondi di violentissimo hardcore, in cui Shaddix rievoca le passioni di gioventù. Un divertissiment ben riuscito per strizzare l’occhio ai vecchi fan di inizio millennio.
Maniac riprende il consueto crossover mainstream tra potenza e melodia con un po’ di elettronica in più e qualche garbata inserzione noise.
Better Than Life chiude l’album con un mix di sonorità nu metal e ammiccamenti pop in chiave elettronica.
Who Do You Trust? è il prodotto convincente di una band determinata a mantenere le proprie posizioni nel rock business e di adeguarsi alle mode musicali senza cedimenti artistici. Difficile dire se quest’album sia anche un tradimento del passato glorioso di Infest. Ma il tempo passa per tutti e chi vuol restare deve adeguarsi. Infine, è difficile, anche, dire se Who Do You Trust? riuscirà a conquistare le nuove platee di millennials. Nel dubbio, consigliamo al vecchio pubblico di ascoltarlo senza preconcetti e atteggiamenti da Curva Sud che nel 2019 sono davvero fuori luogo.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Papa Roach
Da ascoltare (e da vedere):
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