I cattivi maestri della sinistra. Storia di un’egemonia sbagliata e pericolosa
Luciano Pellicani passa al setaccio il pensiero dei big comunisti del secolo scorso e denuncia ancora: furono un pericolo per la nostra cultura e la nostra libertà
In occasione del centenario appena trascorso della Rivoluzione d’Ottobre, celebrato con un po’ d’imbarazzo dai media ufficiali, c’è chi ha continuato a steccare nel coro dei giustificazionisti a prescindere.
È il caso di Luciano Pellicani, punta di diamante di quella cultura riformista che, da sempre, ha mirato al (re)inserimento del socialismo nell’alveo della cultura liberale. E che, non sempre in maniera esplicita e con la dovuta chiarezza, considera oggi il socialismo l’unica forma di liberalismo possibile e umano.
Nel solco di questa linea, Pellicani ha pubblicato Cattivi maestri della sinistra. Gramsci, Togliatti, Lucacs, Sarte e Marcuse (Rubbettino, Soveria Mannelli 2017), con cui riannoda i fili di un discorso mai interrotto e, anzi, rilanciato a tutto campo con L’Occidente e i suoi nemici (Rubbettino, Soveria Mannelli 2016).
Cos’hanno in comune personaggi decisamente diversi come i cinque menzionati nel titolo dell’ultima fatica del sociologo pugliese? Solo la militanza, declinata a vario titolo e con diverse gradazioni (dall’impegno più che totale di Gramsci, Togliatti e Lukacs alla battaglia culturale di Sartre e Marcuse) o c’è un filo rosso, un percorso più o meno carsico che li collega in maniera organica?
Pellicani, va da sé, propende per la seconda: le cinque icone del gauchisme, rivoluzionario e radical chic non sarebbero altro, a suo giudizio, che altrettante manifestazioni e declinazioni di un unico filone di pensiero, animato nella sostanza da pulsioni antimoderne e liberticide, che ha avuto la prima manifestazione ideologica nel comunismo bolscevico e le prime realizzazioni storiche nei totalitarismi orientali dello scorso secolo.
Sulla scia del filone inaugurato altrove da Ernst Nolte e Francois Furet, e ripreso da noi da Domenico Settembrini, Pellicani considera il totalitarismo una categoria storica a sé, che attraversa le due categorie tradizionali di destra e sinistra con esiti tragici, soprattutto nella storia del movimento operaio.
Infatti, spiega l’autore nella Premessa del libro: «Sono sempre esistite quanto meno due sinistre: una accanitamente ostile alle “libertà dei moderni”, l’altra animata dal progetto di allargare il perimetro borghese dello Stato liberale. Di qui la lacerante contrapposizione fra rivoluzionari e riformisti. Una contrapposizione che investiva non solo la strategia, ma anche la meta finale».
Era, in termini più semplice, la contrapposizione tra una visione rivoluzionaria basata sull’idea di una palingenesi totale della società, a prescindere dai costi umani, che ci furono e furono elevatissimi, e tra una concezione realistica basata soprattutto sulle riforme per inserire le masse nella vita politica.
Ed ecco il più importante assioma del Pellicani-pensiero: «Di qui, altresì, la profonda affinità ideologica fra la chiamata rivoluzionaria alle armi di Lenin e quella di Hitler: entrambe avevano come obbiettivo la purificazione della società borghese e la costruzione del dominio totalitario del Partito dei puri. In nome della Classe, la prima, in nome della Razza la seconda».
È questo, in sintesi davvero estrema, il parametro su cui l’ex direttore di Mondoperaio rintraccia il filo conduttore tra i cinque big della sinistra, politica e culturale, del XX secolo e conferisce alle 130 pagine circa del suo saggio una forte organicità: non cinque monografie, ma una sola monografia con cinque, particolari, sfaccettature.
L’interpretazione pellicaniana di Gramsci e di Togliatti, può riaprire ferite mai completamente cauterizzate nella storia e nella cultura del nostro paese. E di fatto le riapre, visto che, per quanto riguarda il pensatore sardo, questa lettura, che va oltre l’anticomunismo canonico (e becero) sentito sin troppo spesso nell’arena politica, smonta la versione buonista del gramscismo fornita di recente da Angelo D’Orsi nel suo Gramsci. Una nuova biografia (Feltrinelli, Milano 2017) e rafforza, semmai, il legame tra il pensiero gramsciano e il bolscevismo.
Anche Gramsci, secondo Pellicani adotta in pieno la concezione leninista, secondo cui il movimento rivoluzionario non si identificava nella classe operaia, bensì nel Partito, le cui avanguardie avrebbero dovuto guidare la classe.
La differenza tra Gramsci e le grandi correnti del socialismo europeo, tedesca ma anche italiana, non potrebbe essere più grande.
Se le cose stanno così, sarebbe persino inutile tergiversare sui rapporti tra Gramsci e Togliatti, in particolare sull’utilizzo strategico del pensiero del primo da parte del secondo: i due, sostiene con dovizia d’argomenti l’ex direttore di Mondoperaio, avevano in comune la stessa matrice totalitaria e bolscevica e l’azione politica dell’ex segretario del Pci non fu che un adattamento della strategia sovietica alla particolare situazione italiana.
Questa continuità, c’è da aggiungere, ha avuto un peso fortissimo nella storia dell’Italia repubblicana: il Pci, impossibilitato ad assumersi vere responsabilità di governo, più dalla sua linea politica antisistema che dalla conventio ad excludendum, divenne – grazie anche alle direttive togliattiane che si basavano a loro volta sul lascito gramsciano – quella sorta di Stato nello Stato, che si reggeva anche sulla presunzione dell’alterità, addirittura antropologica, e della superiorità morale dei militanti comunisti rispetto al resto del Paese. Persino la questione morale sollevata (e cavalcata) da Berlinguer, che secondo i suoi critici restò comunque legato al leninismo più classico, non fu altro che l’estrema attuazione, quasi fuori tempo massimo di questo atteggiamento.
Al giudizio culturale Pellicani accompagna quello politico: un Partito comunista, tra l’altro il più forte d’Occidente, impostato su queste basi, non aveva alcuna possibilità di riformarsi o di governare, per propria autoesclusione dalle regole della democrazia liberale, rigettate in nome della vera democrazia. Cioè del modello politico affermatosi nell’Europa dell’Est e nella parte più popolosa dell’Asia. L’autoscioglimento e il cambio di simboli e ragione sociale sono state, per un partito siffatto (e ampiamente dipendente dalla casa madre sovietica), la logica conseguenza del naufragio del comunismo mondiale.
Per l’ungherese Gyorgy Lukacs il discorso cambia: lui, al pari di Gramsci e Togliatti ebbe ruoli politici, sebbene non da leader (fu ministro della Cultura nel governo di Nagy), ma, grazie al successo delle sue opere, tra cui Storia e coscienza di classe (1923) e soprattutto la celeberrima La distruzione della ragione (1954), ebbe un ruolo importante nella cultura internazionale, europea e occidentale in particolare, del dopoguerra. Da marxista eretico costretto all’autocritica dal governo Kun a maitre à penser dell’intellighentsia marxista, Lukacs influenzò intere generazioni. Se si vuole, fu il ponte culturale tra il sistema sovietico e le democrazie occidentali. Meglio ancora: la testa di ponte di un certo tipo di indottrinamento, militante prima radical poi, che prese piede anche nelle istituzioni scolastiche.
Ma, a dispetto della critica lucaksiana all’irrazionalismo borghese, che avrebbe fatto da levatrice ai fascismi, e a dispetto dell’umanesimo marxista, gratta gratta, secondo Pellicani, sotto la patina politicamente corretta, si ritrova il bolscevico puro. Anche a prescindere da quel che accadde dopo la repressione dei moti di Budapest.
Centrale, in questo caso, è la critica alla borghesia, che in Lukacs fa tutt’uno con il rifiuto del liberalismo.
Ma se con il pensatore ungherese si resta ancora nella sfera della politica militante, le cose peggiorano nei casi di Sartre e Marcuse, che sarebbero stati dei cavalli di troia nella cultura occidentale, dove hanno operato, ricevuto consensi e si sono persino arricchiti. Difficile sintetizzare le critiche indirizzate loro da Pellicani, che, a voler esemplificare, ricordano un po’ alcune pagine dedicate da Milan Kundera alla gauche occidentale. Gustose, al riguardo, risultano le comparazioni tra Marcuse e Julius Evola, anche se, magari, avrebbero meritato qualche approfondimento in più (non fosse altro per via dei riferimenti critici di Evola a Marcuse…).
Luciano Pellicani chiude la sua lunga requisitoria, non lunghissima ma densa, sui cattivi maestri proprio nella Premessa del suo libro, laddove afferma che, (e ci scusiamo per la lunga citazione): «La bancarotta planetaria del comunismo marxleninista non ha posto fine alla contrapposizione “destra-sinistra”; essa, però, ha cessato di essere una guerra ideologica fra “paralitici” ed “epilettici” e ha assunto le forme di un conflitto “ritualizzato” in cui non ci sono nemici da annientare, bensì avversari che si confrontano nell’Agorà politica in quello che Kant chiamava “l’uso pubblico della ragione in tutti i campi”». Troppo ottimismo? Forse sì, soprattutto se si considera il livello a cui la politica postmoderna è riuscita a calare.
E forse qualche detrattore potrebbe fare la classica battuta: Pellicani ha avuto un grande futuro alle spalle, specie a rivedere quel che è successo all’area riformista della cultura politica italiana.
Tuttavia, è facile rispondere che, se il futuro fu quello che il direttore di Mondoperaio intravide nel suo Saggio su Proudhon, che nel lontano (ma non troppo) 1978 divenne il Vangelo Socialista di Craxi, non resta che augurarci che si dimostri lungoveggente anche oggi, che imperano la postpolitica e il turbocapitalismo finanziario ma manca ancora quella sinistra che sappia coniugare ricchezza e giustizia.
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