Romantica e prog per sognare il mondo: la nuova giovinezza di Steve Hackett
L’ex chitarrista dei Genesis propone nel suo nuovo album At The Edge Of Light un incrocio suggestivo tra rock e world music. Grandi sonorità per un messaggio di pace
Sempre romantico, senz’altro un po’ attempato, ma indubbiamente maturo.
Le tinture ai capelli, il viso disteso e il fisico asciutto nascondono a malapena che Steve Hackett ha 69 anni. Segno che l’arte non invecchia gli artisti ma solo i divi.
È difficile dire se gli pesi essere considerato ancora come l’ex ufficiale di bordo di una fregata del rock come i Genesis. E forse no, visto che sta riproponendo dal vivo la scaletta integrale di un classicone come Selling The England By The Pound.
Cinquant’anni di carriera, di cui circa quaranta da solista, nel suo caso significano esperienza. L’esperienza di chi non ha masi smesso di sperimentare, in ossequio alla grande tradizione progressive. E non importa che di quei fasti ormai ci siano solo delle tracce, per di più non preponderanti, perché si è scelta la world music, interpretata in chiave rock e in maniera brillante. Ciò che conta è la ricerca, di strade ed emozioni nuove.
E il recente At The Edge Of Light (Inside Out 2019), ventisettesimo album solista, conferma quest’attitudine: c’è il romanticismo di matrice genesisiana (che però non è l’unico retaggio prog), c’è il rock, che in vari passaggi chitarristici assume colori metal, c’è la world e c’è la sperimentazione, condotta col garbo di sempre e nel pieno rispetto dell’ascoltatore.
Un’attitudine più che assecondata dai sodali di mr Hackett, che interpretano alla grande le intuizioni musicali del chitarrista-leader: il fratello minore John Hackett al flauto e a molti altri strumenti, la biondissima cantante-chitarrista Amanda Lehmann, il tastierista Roger King e il batterista Gary O’ Toole, che ha lasciato la band l’estate scorsa, altro artista stagionato per cui gli anni significano più esperienza che vecchiaia. Assieme a loro, un nutritissimo cast all stars di ospiti che si alternano nei vari brani.
Siccome le matrici progressive (come il buon sangue) non mentono, anche in quest’album c’è un robusto concept, musicale e concettuale: l’ideale di un mondo senza frontiere e la denuncia di chi, all’interno delle varie culture, preme per la chiusura e per trasformare i confini in frontiere armate invalicabili, anche a costo di conflitti sanguinosi.
Un ingenuo ideale mondialista? Anche questo. Ma è pur vero che l’arte ha il compito di collegare le culture laddove la politica e certa finanza, con i loro calcoli cinici, mirano a dividerle.
Ed ecco che, in omaggio all’impostazione rock-world della recente produzione hackettiana, un nervoso fraseggio del tar di Malik Mansurov apre l’orientaleggiante Fallen Walls And Pedestalls, in cui l’arrangiamento orchestrale vagamente apocalittico e il drumming di O’ Toole sono degne cornici delle escursioni della chitarra, in cui convivono virtuosismo e lirismo.
La radice prog romantica emerge prepotente nella successiva Beasts In Our Time, che parafrasa nel titolo lo slogan di lord Chamberlain «Peace in our time» e punta il dito sui leader che seminano discordia per raggiungere o mantenere il potere. Il brano, ben cantato dallo stesso Hackett, è per la gran parte un lento dolcissimo, impreziosito dagli interventi raffinati del sax di Rob Townsend, che suona anche il duduk nell’intermezzo minimale, del flauto di Hackett jr e, ovviamente, della chitarra. Poi, nella parte finale, un crescendo inquietante e suggestivo dagli echi crimsoniani.
Con Under The Eye Of The Sun il sound vira decisamente verso la world music, grazie al ritmo scatenatissimo, marcato dal lavoro superbo del bassista Jonas Reingold e del batterista , che si interrompe in un intermezzo minimale in cui spadroneggiano i fiati (in particolare il didgeridoo di Paul Stivell) sulla base del contrabbasso di Dick Driver. Infine, la sarabanda riprende su un tempo leggermente più accelerato e sfocia in una chiusa orchestrale.
In Underground Rail affiora la passione di Hackett per la musica black. Di sicuro nell’intro, interpretato da una suggestiva slide guitar. Ancor di più nel refrain, un gospel cantato da Amanda Lehmann e dalle sorelle Durga e Lorelei McBroom, già coriste alla corte dei Pink Floyd. Da manuale del prog la parte strumentale, che si regge su un riff durissimo, a metà tra Jehtro Tull e King Crimson ed evolve in un assolo suggestivo su potente un tappeto orchestrale.
La lezione dei Genesis (e, in parte, degli Yes) si fa sentire non poco nella suggestiva suite Those Golden Wings, una lezione di prog ad alti livelli dall’impianto romantico, arricchita dal drumming di Nick D’Virgilio degli Spock’s Beard e dagli archi di Christine Townsend. Fantastica la prestazione di Hackett, a suo perfetto agio sia nei riff potenti della seconda parte del brano sia negli stacchi di chitarra classica che fanno da suggestivo raccordo tra i cambi di tempo e atmosfera di questo raffinato caleidoscopio.
Shadow And Flame si muove tra suggestioni mediorientali e seduzioni indiane, ben interpretate dal sitar di Sheema Mukherjee che duetta con la chitarra di Hackett, che azzarda a sua volta fraseggi fusion dal sapore holdsworthiano.
Hungry Eyes è una ballad elettroacustica dai simpatici ricami pop, ben interpretata da Amanda Lehmann.
L’album termina con un’altra suite, divisa in tre movimenti, che disegnano in note l’evoluzione dal conflitto alla pace.
Descent, un bolero oscuro debitore dei King Crimson di In The Wake Of Poseidon, racconta, col il ricorso a dissonanze cupe ma mai cervellotiche, il dramma di un’invasione militare.
Le atmosfere marziali esplodono nei tempi spezzati di Conflict, in cui la chitarra di Hackett si scatena in virtuosismi escandescenti.
Poi una parte orchestrale porta alla conclusiva Peace, un altro richiamo ai golden years genesisiani: una ballad romantica introdotta da dolci arpeggi di piano che evolve in un refrain arioso e sognante, quasi a voler ribadire l’equilibrio che segue alla lotta.
Non si può proprio dire che Steve Hackett sia tornato, perché il ritmo invidiabile delle sue produzioni, sostenuto da una vena creativa inesauribile, dimostra che il chitarrista londinese non vuol proprio sapere di lasciare le scene.
Ascoltiamolo, allora, con ammirazione e rispetto. E con la consapevolezza che, finché artisti come lui calcheranno i palchi e invaderanno le sale di incisione ci sarà sempre qualcosa da imparare e di cui meravigliarsi. Già: solo i grandi come Hackett hanno la capacità di stare in bilico, come recita il titolo di questo bell’album, sul ciglio della luce.
E, a proposito di invidia: val la pena di provarla per chi avrà la possibilità di vederlo dal vivo nell’imminente tour italiano.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale di Steve Hackett
Da ascoltare (e da vedere):
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