Così Pino Aprile ha sfruttato il mio lavoro
Parla Lorenzo Terzi, l’archivista che ha svolto le ricerche su cui si è basato “Carnefici”, l’ultimo libro dello scrittore “revisionista” pugliese. Aprile, stando a questa importante testimonianza, avrebbe distorto sistematicamente i risultati di un lavoro di scavo duro e certosino condotto negli archivi del Napoletano. «Io ho svolto coscienziosamente il mio lavoro, ma trovo discutibile l’uso che ne è stato fatto». E la verità storica? «Mi sembra che sia stata l’ultima delle sue preoccupazioni: lui scrive per vendere, magari approfittando del malessere e della rabbia dei meridionali». Il dietro le quinte di una collaborazione che ha portato molti soldi nelle casse dell’editore, guadagni lauti all’autore e pochi spiccioli a chi ha lavorato nell’anonimato. Il genocidio dei “terroni”? «Non ci fu, né è possibile dimostrarlo. Lo pensavo anche quando lavoravo per Aprile»
Seicentomila morti? Ecco le prove? E l’esercito di infaticabili topi d’archivio? Le domande non sono casuali.
Nel suo recente Carnefici(Piemme, Milano 2016) Pino Aprile sosteneva di aver trovato le prove del genocidio a danno dei meridionali – di noi meridionali – compiuto dal Regio Esercito nel periodo immediatamente postunitario. La solita vecchia storia dei piemontesi invasori, che nella vulgata apriliana diventano massacratori, degni antesignani delle peggiori SS o dell’esercito turco (e non a caso Aprile, con la consueta enfasi, equipara le operazioni militari della repressione del brigantaggio al genocidio degli armeni).
A dirla tutta, già il libro in sé è una delusione per chi si aspettava chissà che rivelazioni: lo scrittore pugliese afferma che, passato il periodo di emergenza, mancano circa seicentomila meridionali nei censimenti. Un buco vistoso, tanto più vasto perché non causato dalla grande migrazione, che sarebbe iniziata a partire dal ventennio finale del XIX secolo. Che fine hanno fatto? Anzi, avrebbero fatto? L’ex direttore di Oggi non ha dubbi: passati per le armi, fatti sparire o deportati.
Per dimostrare questo teorema crudissimo Aprile porta a spasso il lettore per centinaia di pagine, zeppe di cifre e di suggestioni. Ma alla fine la prova non arriva.
È certa, alla fine della lettura, solo una cosa: mancano i numeri e i documenti, non le persone. Ovvero, mancano gli atti del primo censimento (gli atti, si badi bene, non i risultati), così come mancano alla conta parecchi documenti importanti.
Basta questo a provare l’avvenuto genocidio? Proprio no.
Lo ribadisce Lorenzo Terzi.
Classe ’71, napoletano doc con radici capresi, laurea in Lettere alla Federico II e due specializzazioni in archivistica, una presso la Scuola dell’Archivio di Stato a Napoli e l’altra presso la Scuola dell’Archivio Segreto Vaticano, Terzi conosce da dietro le quinte la genesi di Carnefici. Lo stesso Aprile, infatti, lo ha menzionato nel suo best seller Terroni (Piemme, Milano 2011), in un passaggio in cui cita il capitano Alessandro Romano, personaggio in vista dalla galassia neoborbonica: «Ci siamo divisi i compiti: io mi occupo soprattutto di brigantaggio e di resistenza; (…) Lorenzo Terzi della ricerca dei documenti perduti: ha un fiuto sovrumano, come se sapesse già dove scavare nella montagna di faldoni con sopra più di un secolo di polvere».
Come ha conosciuto Pino Aprile?
L’ho conosciuto nel 2012, grazie, se così posso dire, ai buoni uffici di Romano. Io sono stato un militante storico del Movimento Neoborbonico, da cui sono uscito nel 2015 per divergenze con il presidente Gennaro De Crescenzo. Nel corso della mia militanza, ho compiuto per loro molte ricerche d’archivio.
Anche per Aprile?
Certo. Lui voleva che svolgessi una ricerca del tutto particolare che sarebbe dovuta confluire in un’opera ambiziosa: la raccolta delle biografie complete di molti ufficiali che parteciparono alla conquista e alla successiva occupazione del Regno delle Due Sicilie e, ovviamente, alla repressione del brigantaggio. Questa ricerca, che avrei dovuto svolgere in Campania, a Roma e a Torino, rovistando in tutti gli archivi, non sarebbe stata a titolo gratuito. Infatti, ho chiesto un compenso di ventimila euro. Il minimo, per un lavoro che mi avrebbe tenuto impegnato per mesi in maniera totalizzante. Non se ne fece nulla perché l’editore Piemme non era disposto a pagare questo compenso.
C’è da immaginare che da queste biografie i militari piemontesi sarebbero risultati quasi dei novelli Bormann.
Più o meno. Ma questo fa capire che nessun archivista professionista sarebbe disposto a fare una ricerca così defatigante e dai risultati incerti, se poi non c’è neppure la prospettiva di un compenso adeguato.
In compenso è uscito Carnefici, al quale ha collaborato.
Certo. Mi sono limitato a compiere ricerche a Napoli e nel Napoletano, vista la modestia del compenso dell’editore: circa tremila euro. E c’è da dire che non sempre sono arrivati i risultati.
Che vuol dire?
Una volta andai a Benevento per verificare una vicenda: il presunto stupro e omicidio di una popolana perpetrato dai soldati piemontesi. Trovai un faldone di circa cento fascicoli e lessi tutti i documenti più volte. Ma senza alcun risultato: di questa storia non c’era traccia.
Magari perché erano state fatte sparire le carte?
Non credo proprio, perché nel faldone erano contenuti documenti relativi a vicende comunque cruente e non proprio bellissime. Perché fare sparire proprio quella vicenda? Eppoi la prova che certe carte siano state fatte sparire dov’è?
Lei comunque si sarebbe accorto della mancanza dei documenti del primo censimento postunitario. Sulla mancanza di questi documenti Aprile ha poggiato l’assunto centrale di Carnefici, cioè il genocidio dei meridionali.
Io dico solo che mancano le carte. Affermare che, oltre i documenti, manchino pure le persone, è un azzardo, non solo metodologico, ma addirittura logico. Ora, una cosa è il metodo giornalistico, in cui a volte possono bastare le suggestioni o le ipotesi pure, un’altra il metodo storico, che deve basarsi obbligatoriamente su prove. Senza di queste, si possono solo fare illazioni.
Ma come si è accorto di questo ammanco?
Per puro caso. Ero impegnato in varie ricerche, tra cui una che mi stava particolarmente a cuore sulla effettiva scolarizzazione e alfabetizzazione dei sudditi del Regno delle Due Sicilie. Io ritengo tuttora ridicola la statistica secondo cui l’analfabetismo nel Meridione toccava il 90 per cento della popolazione. Una percentuale troppo esagerata. E non credo di essere il solo a pensarla così. Cito, al riguardo, lo storico Alessandro Barbero, che, nel suo libro sui militari napoletani detenuti a Fenestrelle si meraviglia dell’alto numero di soldati alfabetizzati. Non parliamo certo di intellettuali, però questo basta a sfatare l’idea di un popolo di lazzari e di rustici.
E allora?
Mi sono imbattuto in un documento interessante: un prospetto demografico inviato, in doppia versione, manoscritta e a stampa, dal segretario generale del Dicastero dell’interno e della polizia al Comando del VI dipartimento militare di stanza a Napoli. Riguardava lo stato della popolazione al di qua del faro, cioè solo gli abitanti del continente. In questo documento, che risale ad agosto 1861, mi ha colpito un dettaglio particolare: il segretario generale del Dicastero affermava con rammarico nella lettera di accompagnamento della documentazione demografica che «non esiste una regolare statistica della nuova circoscrizione delle Provincie Napoletane». Un’affermazione piuttosto singolare, visto che questo Dicastero, una struttura provvisoria dell’amministrazione del Sud appena annesso, ereditava gli uffici del disciolto Regno delle Due Sicilie.
Quindi neppure i Borbone sapevano quanti fossero in realtà i propri sudditi.
Certo, ma non per colpa loro: la scienza statistica muoveva i primi passi e i metodi non erano univoci né del tutto efficaci. Non come oggi, almeno. Ma non finisce qui: nel corso di questa ricerca mi sono accorto che Stefano Vitali, una vera e propria eminenza grigia dell’archivistica, aveva lamentato la mancanza della documentazione relativa ai primi censimenti dell’Italia unita.
Che tipo di documentazione?
Essenzialmente le schede utilizzate per la raccolta dei dati e la documentazione intermedia. A questo punto mi sono incuriosito e ho scritto ad Agostino Attanasio, allora soprintendente dell’Archivio Centrale dello Stato per avere informazioni. Anche lui mi ha confermato che i documenti non si trovavano. La stessa risposta, infine, mi è stata data dai dirigenti dell’Istat.
Questi nomi, specie Vitale, ritornano in Carnefici.
Infatti, io ho fornito ad Aprile tutti i risultati di questa mia ricerca prima che terminasse il libro.
Però Aprile usa questi dati per dimostrare l’idea di un genocidio.
E su che basi? Occorrerebbe, per affermare certe cose, prima provare che queste carte siano effettivamente state fatte sparire e, soprattutto, provare i motivi per cui sarebbero state fatte sparire. A livello archivistico e storico si può affermare solo che queste carte non si trovano più. Ma anche questo può non voler dire molto: in fin dei conti abbiamo ancora la sintesi dei dati su cui si è basato il primo censimento.
Aprile, nella prima metà di Carnefici, parla di un forno delle carte, in cui sarebbero stati distrutti i documenti scomodi.
È solo una suggestione. È una prassi comune, seguita anche dal regno borbonico, distruggere i documenti inutili. I cosiddetti forni li usavano tutti. Non è il caso di costruire dietrologie su una pratica normale nell’archivistica.
Quali carte venivano distrutte?
Di solito quelle relative ai processi penali per reati infamanti. Questa prassi serviva ad assicurare il cosiddetto diritto all’oblio, soprattutto agli eredi dei condannati. Certo, in alcuni casi la distruzione dei documenti ha danneggiato il lavoro degli storici. Ma ciò è avvenuto essenzialmente per gli ex archivi pontifici, non per quelli del Regno di Sardegna o delle Due Sicilie o, come pretende Aprile, per quelli del neonato Regno d’Italia.
Quindi niente genocidio.
Direi. Manca la prova di una deliberata volontà genocida. Il paragone col massacro degli armeni, tentato da Aprile, è proprio fuori luogo: non esistono, per l’Italia, prove di un’azione coordinata e pianificata per sterminare i meridionali. Certo, dei militari impegnati in operazioni delicate in un quadro di emergenza possono esagerare e lasciarsi andare ad eccessi. Ma da qui a dimostrare un genocidio, anche solo tentato, ne corre.
Quindi Aprile ha forzato la mano.
Diciamo così. È partito da dati veri che, se correttamente utilizzati, avrebbero prodotto dei risultati interessanti, per dimostrare a tutti i costi le proprie tesi. Una procedura tutt’altro che corretta. Faccio un altro esempio: in un documento militare del 1864 appare l’espressione «morti per cause indipendenti dal servizio». Anche in questo caso ho chiesto spiegazioni ai dirigenti dell’Archivio di Stato. E la risposta mi è arrivata puntuale: si riferiva o ai ribelli mazziniani che si erano ammutinati nel Centronord oppure ai disertori che erano andati a combattere in Polonia contro l’esercito zarista ed erano morti lì. Ovviamente ho girato tutto ad Aprile, che ha interpretato l’espressione a modo suo.
Però Aprile dice di essersi servito dell’aiuto di molti archivisti, anche non professionisti.
Sarà senz’altro vero. Però l’archivista non professionista al massimo può raccogliere a strascico materiali grezzi, che devono comunque essere contestualizzati e interpretati. Non mi pare che questo sia stato fatto. Né mi risulta, tra l’altro che Aprile si sia fatto aiutare da storici professionisti ad aggregare i dati che gli sarebbero stati forniti da altri collaboratori. Ma mi pare chiaro il perché: lo scopo di libri come Carnefici non è discutere o criticare dei dati storici, ma semplicemente vendere, facendo leva sul malessere e sulle nevrosi delle persone.
Lei si è pentito di aver collaborato a questo libro?
Io ho fornito una prestazione professionale. Certo, non mi piace l’uso che è stato fatto del mio lavoro, ma questo è un altro discorso.
Lei ha rotto con Pino Aprile.
La rottura è avvenuta lo scorso luglio, in seguito a un articolo pubblicato su Panorama in cui Aprile le sparava un po’ grosse sulla presunta napoletanità di Cenerentola per assecondare un’iniziativa di Gennaro De Crescenzo, il presidente del Movimento Neoborbonico. Io inviai una lettera aperta al direttore di Panorama per criticare tutta l’iniziativa e Aprile la prese malissimo.
A proposito di De Crescenzo. Lei è stato un militante storico del Movimento Neoborbonico.
E non me ne pento, anche se ne sono uscito. Io ho militato a lungo perché sono tuttora convinto che il Sud e la sua storia debbano essere riconsiderati e rivisti. Certo, speravo in un’evoluzione culturale del Movimento. Speravo nel distacco dalla nostalgia e dal folclore in favore di una visione politica più elaborata. Invece mi pare che tutto sia scaduto in una caricatura della Lega vecchia maniera. Però sono convinto di una cosa: se non fosse stato per le nostre polemiche e per le nostre controstorie, la storiografia ufficiale avrebbe continuato a dimenticare il Sud e la Questione Meridionale sarebbe stata definitivamente rimossa. C’è da dire che Aprile, con le sue tesi discutibili, ha obbligato il mondo della cultura a reagire. Penso che, senza Terroni, non avremmo avuto dei bei libri come quelli di Salvatore Lupo, di Renata De Lorenzo, di Alessandro Barbero e di Paolo Macry. Di questo, almeno, dobbiamo essergli paradossalmente grati.
(a cura di Saverio Paletta)
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