Paleocene, il pop secondo gli Orango Blanco
Nove brani tra suggestioni acustiche ed elettronica nell’album d’esordio del duo padovano
Nulla è come sembra. Non lo è il titolo, né la band, in questo caso un duo che ha fatto di un intelligente minimalismo electropop la propria bandiera.
Paleocene, l’album di debutto dei padovani (in realtà di Castelfranco Veneto) Orango Blanco uscito da poco per la Sorry Mom!, evoca un po’ lo storico Darwin, il secondo album dei mitici Banco del Mutuo Soccorso, un concept immaginifico dedicato all’evoluzione delle specie. E difatti il Paleocene è l’era geologica in cui i primati prendono il posto dei dinosauri.
Nel caso dei due padovani, i chitarristi acustici e cantanti Alessandro Guglielmin e Tommaso Cavallin, il termine è poco più che una suggestione, visto che Paleocene non è un concept nemmeno a livello sonoro e non reca tracce di prog.
Detto questo, l’album è comunque una sorpresa deliziosa, grazie alla sapiente mescolanza di sonorità elettroniche, piene di rinvii al synth pop e di blandi accenni noise, e approccio compositivo in prevalenza acustico.
Estasi, il secondo singolo del duo, apre la raccolta con un bel ritmo pulsante e sonorità che richiamano i tardi anni ’80. Il tutto impreziosito dai simpatici fraseggi di chitarra acustica che infiorettano un coro ruffiano quel che basta.
Kiss è una semiballad dalla robusta base acustica che evoca suggestioni californiane con vaghi colori caraibici. Davvero buono l’uso dell’inglese, che rivela una vocazione internazionale e una tendenza tutt’altro che provinciale.
So Precious, il primo singolo del duo, è un’altra piccola perla di elettropop dall’approccio 90es ma dal suono più che attuale, grazie a un equilibrio perfetto tra la componente melodico-acustica e quella elettronica. Non è un caso che il brano, accompagnato da un bel video di Giacomo Ravenna, sia stato utilizzato come jingle per la promozione di BeAngel, una app particolare dedicata al problema della sicurezza.
Burn Like Tears è un pezzo arioso in cui c’è qualche reminiscenza degli U2, specie nel cantato che ricorda alcune cose di Bono, e dall’andamento allegro che cozza un po’ con il tema un po’ triste del testo.
Più malinconica, Cold si snoda sul medesimo contrasto agrodolce di atmosfere acustiche e inserzioni elettroniche, tra cui un sequencer iniziale dall’appeal vagamente noise.
Come marea è un altro pezzo malinconico che si snoda con efficacia tra gli arpeggi liquidi della chitarra e synth riverberati.
One Of Us (Should Die) è un brano dalle atmosfere notturne e dal refrain funkeggiante che evoca atmosfere bondiane (nel senso di James Bond), l’ideale per raccontare una struggente spy story.
Atmosfere più sognanti in Ciò che il vento già sa, altro riuscito mix tra base acustica e arrangiamenti synth pop.
Il delicato fingerpicking di Il tramonto (non c’è più) chiude l’album con tocchi tenui da ninna nanna, sussurrati in falsetto.
Sperimentale con garbo, pensato per un pubblico vasto ma non per questo sfacciatamente commerciale, Paleocene è il buon esordio di un duo che promette bene. Manca solo il successo mainstream, che è il coronamento degno di queste operazioni. Ma c’è tempo. L’importante è che gli Orango Blanco, nati già maturi, continuino a mantenere a livello qualitativo le notevoli promesse di questa opera prima.
Da ascoltare (e da vedere):
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