A proposito della “secessione dei ricchi”
Continua il dibattito sulle autonomie differenziate, che dovrebbero introdurre il cosiddetto “federalismo fiscale”. In realtà le autonomie “turbo”, volute da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, sono di dubbia costituzionalità e, se realizzate, precipiterebbero il Paese nel baratro e, alla lunga, danneggerebbero anche i territori più opulenti. Semmai è il momento di fare un passo indietro, anche rispetto alla riforma Bassanini. Lo Stato riprenda in mano Sanità, Istruzione e Trasporti per salvare la democrazia
Sono mesi che il professor Gianfranco Viesti lancia l’allarme sui pericoli della riforma delle autonomie. E sono mesi che vari autori meridionali, soprattutto giornalisti, rilanciano questo allarme.
Non entriamo nel merito di questa riforma, che potrebbe essere di dubbia legittimità perché è una riforma costituzionale camuffata. Quel che preoccupa è il metodo: tutto è partito dai referendum farsa (tali perché privi di valore giuridico) con i quali i big leghisti alla guida di Veneto e Lombardia chiedevano di forzare al massimo la possibilità offerta dall’articolo 116 della Costituzione e perciò hanno chiesto competenze speciali in tutte le ventitré materie contemplate da questa norma.
Una richiesta che rischia di stravolgere l’equilibrio delicatissimo su cui si regge il Paese e somiglia non poco a un colpo di Stato, non fosse altro perché svolge senza un dibattito pubblico adeguato e col Parlamento ridotto al livello di spettatore.
Ma dobbiamo chiederci un’altra cosa: siamo sicuri che per questa riforma basti il dialogo tra il governo e le Regioni interessate e siano sufficienti le leggi ordinarie? La forzatura è tutta qui: se davvero fossero accolte queste richieste, le Regioni beneficiate avrebbero più poteri e risorse di quelle a statuto speciale, che invece sono tali perché previste dalla Costituzione. Un bel pasticcio, non c’è che dire.
E il fatto che questa proposta sia così pasticciata lascia ben sperare perché non si realizzi.
Non è una questione di Nord contro Sud né è il caso di puntare il dito sull’egoismo dei ricchi (che pure c’è). Giusto due osservazioni per sfatare certi miti generati dalla incosciente venerazione delle autonomie.
La prima deriva dalle tante inchieste giudiziarie che hanno ribadito più volte come la mala gestione e il malaffare non siano esclusive del Sud (ricordiamoci di quel che è capitato a Formigoni e a Maroni). Nord e Sud nelle cattive pratiche si somigliano sin troppo. E paradossalmente, se questa riforma passasse, finirebbero per somigliarsi di più, dato che, statistiche alla mano, i fenomeni corruttivi e l’illegalità spicciola sono più diffusi nei livelli locali che in quelli Statali del potere.
Non vogliamo passare per giustizialisti, ma è palese l’assurdo di una riforma che tenta di dare soldi e potere ai livelli in cui i rischi sono più alti.
Seconda osservazione: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna sono senz’altro più ricche del resto d’Italia. La prima lo è di tradizione, che risale addirittura all’epoca preunitaria. Le altre due sono emerse a partire dagli anni ’70 con il cosiddetto miracolo del Nec (Nordest-Centro). In entrambi i casi, c’è da dire che la loro ricchezza è derivata ed è stata accresciuta dal legame forte col resto del Paese, non dal loro distacco.
Che accadrebbe a queste tre Regioni se le loro richieste fossero accolte e le altre Regioni facessero altrettanto? È facile prevedere che questi territori finirebbero isolati e si impoverirebbero due volte: innanzitutto perché sarebbero privati dell’indotto “interno”, costituito dal Sud, storico consumatore dei prodotti del Centronord, poi perché si troverebbero esposti alla concorrenza dei Paesi balcanici, più (è il caso di Croazia e Slovenia) o meno (Romania) attrezzati, ma comunque più competitivi a livello di prezzi e costi.
Una volta soli, anche i ricchi piangono.
Dunque, se questa riforma passasse, il Sud sprofonderebbe in poco tempo, ma il Nord colerebbe a picco assieme ad esso. Quando si è un Paese si condivide anche il destino: si vive (e si vince) assieme oppure si muore (e si perde) assieme.
Il problema reale riguarda tuttavia la tenuta della democrazia nel nostro Paese: a chi si mette in bocca a sproposito la Costituzione per riformarla e deformarla a piacimento, occorre ricordare che alcune cose non si possono proprio modificare. Tra queste, il principio di eguaglianza, sancito dall’articolo 3, senza il quale non può esistere nessuna democrazia. Eguaglianza significa anche uguale diritto ad essere curati, istruiti, spostarsi. Tutto ciò è stato compromesso a partire dalla riforma Bassanini.
Curarsi al Sud è meno efficace e più costoso eppure il Diritto alla Salute deve essere garantito innanzitutto dallo Stato. Stesso discorso per l’istruzione, compromessa dai meccanismi delle autonomie (per fortuna non così radicali come nel caso della Sanità). Quasi peggio per i trasporti, come ha denunciato di recente l’europarlamentare Giosi Ferrandino.
Altro che autonomie: in questi casi lo Stato dovrebbe riprendersi appieno le proprie competenze e sottrarle quasi del tutto alle Regioni, perché un cittadino italiano ha lo stesso diritto ad essere curato in un Ospedale di Caltanissetta, in uno di Palermo, in uno di Cosenza e in uno di Milano. E perché, lo ricordiamo ai moralisti, solo la maggiore ricchezza ha impedito alla malasanità, presente al Sud come al Nord, di devastare la Sanità lombarda come quella campana, calabrese o siciliana.
E che dire dell’Istruzione, in cui le scuole e le università meridionali sono costrette a fare i miracoli e a performare il doppio per avere la metà delle omologhe del Nord?
Il capitolo dei trasporti, invece, è semplicemente penoso. Il fatto che spostarsi dalla Calabria costi più e comporti maggiori disagi non è colpa della Calabria, ma di un intero Paese che funziona male.
E potremmo continuare a lungo. Ma con un solo risultato: la vera riforma è una “controriforma”, cioè un passo indietro sulla via del regionalismo, che ci ha dato un Paese in buona parte regredito, soffocato dai campanili e perciò più egoista.
La nostra non è la nostalgia per il “centralismo”, che l’Italia non ha avuto neppure durante il fascismo, o per l’assistenzialismo. È la nostalgia per l’Italia che cresceva e godeva in maniera più equa dei frutti della crescita.
Grazie alla vecchia amministrazione accentrata, che si è voluta archiviare in tutta fretta come un ingiusto rottame del passato, il Sud è riuscito a crescere e il Nord ad arricchirsi. Lo hanno ripetuto, negli ultimi anni due storici di vaglia come Salvatore Lupo e Paolo Macry: i rapporti tra territori e Stato, prima del trasferimento alle Regioni di importanti materie, erano quelli, più semplici, tra centro e periferia. Perciò le classi politiche che si formavano in quei contesti avevano un livello nazionale e agivano con uno scopo ben preciso: strappare al centro più benefici possibili per il proprio territorio.
Il federalismo ha senso quando diventa aggregazione, quindi funzionerebbe solo in contesti diversi, ad esempio quello europeo, dove unirebbe degli Stati preesistenti in un progetto comune.
Al contrario, è inefficace quando mira a dividere, esasperando le differenze tra i territori e le culture. In ogni caso, una differenza tra autonomie e federalismo esiste ed è più forte di quanto si creda. Solo uno Stato coeso può dar forza alle sue autonomie, che servono ad avvicinare i cittadini alla vita pubblica e non a separarli tra loro. E può farlo alleggerendo gli enti territoriali da funzioni delicate, che diventano onerose per i contribuenti, e lasciando ad essi solo gli aspetti più specifici della vita amministrativa.
Le Regioni “turbo” vagheggiate da chi vuole questa riforma, avrebbero il contrappeso di uno Stato irresponsabile.
Con risultati che sarebbero peggiori dell’attuale disordine.
Che si aspetta a fermare la macchina prima che sia troppo tardi?
Cesare Loizzo
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