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La morte silenziosa di Charles Manson

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Ordinò stragi in nome dei Beatles e guidò la “comune” più sanguinaria della storia. Sesso, droga e delitti nella California degli hippies

Charles Manson se n’è andato il 19 novembre a 83 anni, dopo averne trascorsi 45 all’ergastolo a causa di un’emorragia intestinale. Questo lo sappiamo perché la notizia ha fatto il giro del mondo e non a caso: Manson era uno degli ultimi grandi criminali del XX secolo ancora in vita.

Già ragazzo deviante, come si direbbe ora, e figlio di una prostituta che lo aveva abbandonato, Manson, prima ancora di diventare il guru sanguinario che terrorizzò l’America della Summer of Love, ne aveva combinate di tutti i colori: furto e contrabbando di auto, poi sfruttamento della prostituzione più vari reati, che gli erano fruttati un decennio di carcere.

Proprio in galera, durante la condanna più lunga si era messo a studiare di tutto per diventare da pappone fallito il santone allucinato e allucinante che è passato alla storia: esoterismo, magia, psichiatria, occultismo, ipnotismo e musica.

Un mix disordinato e micidiale, che gli consentì di plagiare gli sbandati che incontrò non appena scontata la pena e di creare un gruppo di persone devote, che in lui riconoscevano un guru e che per lui erano pronte a tutto. Anche ad uccidere, per vendicare la sua frustrazione di non essere riuscito, a dispetto di vari tentativi e nonostante l’aiuto di Dennis Wilson dei Beach Boys, a diventare una rockstar.

Manson iniziò col tristemente celebre massacro di Bel Air, in cui morì l’attrice Sharon Tate, la moglie di Roman Polanski, che probabilmente scampò all’eccidio perché si trovava a Londra per promuovere il suo ultimo film, il celeberrimo Rosemary’s Baby. Era solo una coincidenza, ma la stampa ci speculò alla grande: la protagonista di un film horror di matrice satanica massacrata in maniera atroce dai membri di una setta di invasati.

Secondi in ordine cronologico, l’imprenditore Leno LaBianca e sua moglie Rosemary. Poi altri due delitti, più che altro due regolamenti dei conti, a danno dell’ex amico Gary Hinman e l’ex membro della setta Donald Shea.

Se il procuratore Vincent Bugliosi non li avesse fermati per tempo, i membri della Family, così si chiamava la banda di Manson, avrebbero provato a mettere a segno la serie di delitti pianificati dal loro capo a danno di varie star: Liz Taylor, Richard Burton, Frank Sinatra e Steve McQueen. Tutti pezzi grossi di quello show business in cui, nonostante gli sforzi, lui, Manson, non era riuscito ad entrare.

Da lì il processo shock e poi la galera in cui è morto dopo aver turbato per decenni l’immaginario collettivo.

Folle, paranoide e psicotico, ma anche carismatico, dotato di forte oratoria e a modo suo colto e affascinante, Manson ha ispirato criminologi e psichiatri, al punto che non c’è un manuale di criminologia che non gli dedichi almeno un paragrafo, ha incuriosito giornalisti e scrittori e forse proprio dalla sua attività criminale è partita la crociata anti rock, promossa negli anni da vari gruppi cristiani, soprattutto statunitensi, e da alcune parti della Chiesa.

Difficile dire se le gesta infami di Manson possano essere considerate l’antecedente storico di quelle, altrettanto turpi, avvenute nella Norvegia degli anni ’90 ad opera di gruppi di fan del black metal. Certo è che il macellaio di Bel Air aveva elaborato una sua ideologia in cui c’era tutto e il contrario di tutto: spunti della cultura hippie, tra cui l’ambientalismo e la liberazione sessuale (infatti, concepì il suo unico figlio, Mattew Roberts, durante un’orgia), la nascente cultura psichedelica (Manson e i suoi facevano un uso abbondante di Lsd e allucinogeni), il razzismo Wasp (era noto l’odio della Family verso i neri) e il rock, in particolare i Beatles (e restano tristemente celebri le citazioni macabre di Helter Skelter trovate nei luoghi dei delitti).

In pratica, Manson interpretò a modo suo la cultura della Summer of Love per inserirvisi e fare qual che aveva fatto prima, ma da leader. Ed ecco che le rapine prendono il posto dei semplici furti, le pratiche orgiastiche si aggiungono al precedente sfruttamento delle donne (anche se non è mai emerso che le affiliate della Family si siano prostituite) e, rispetto a prima, si aggiungono le stragi e gli omicidi.

Basta l’amore di Manson per il rock a giustificare l’ipotesi di un potere criminogeno della musica e della cultura giovanili più importanti del secolo scorso? Ovviamente no. Ciò vale per i Beatles ieri e per i metallari estremi della Scandinavia oggi.

È vero che il rock ha avuto, sin dalla seconda metà degli anni ’60, un rapporto privilegiato con la cultura esoterica. A partire proprio dai Beatles, che omaggiarono l’occultista britannico Aleister Crowley nel loro S.gt Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967), che proprio grazie a loro divenne un’icona pop. Né va sottaciuto l’influsso esercitato da altri circoli esoterici (è il caso della Chiesa di Satana di Anton Lavey).

Ma questi rapporti, come abbiamo già accennato, non bastano a giustificare le equazioni secondo cui dietro il fascino del rock ci sia la puzza dello zolfo.

Né la cultura dell’eccesso di cui si sono fatte interpreti molte rockstar può spiegare da sola i comportamenti violenti di cui si sono resi responsabili molti giovani fan.

Il caso di Manson, vivisezionato fino alla fine da torme di psichiatri, è pian piano tornato nel suo alveo naturale: la devianza individuale e le suggestioni collettive di cui questa può essere causa. E questa devianza non si nutre solo di simboli negativi, come la già citata cultura satanica.

Si pensi, per fare un esempio, che negli stessi anni in cui il folle guru trasformava i suoi seguaci in assassini il reverendo Jim Jones aveva iniziato quella predicazione fanatica che sarebbe terminata, a fine anni ’70, nella tragedia della Guyana, il più grande suicidio collettivo a memoria d’uomo con 909 morti.

Anche il cristianesimo, in mano a un folle, può diventare, purtroppo, uno strumento criminale.

Cosa ci fosse davvero negli abissi della mente di Manson hanno provato a spiegarlo in tanti. Ora che è morto in maniera banale, come tanti criminali qualsiasi finiti dietro le sbarre per reati minori dei suoi, ci resterà il mistero e la consapevolezza che non serve affannarsi per capire la follia e cercarne motivazioni al di fuori della psiche dell’uomo

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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