La morte banale e i tanti misteri di Totò ‘u Curtu
L’ultimo capo dei Corleonesi se n’è andato dopo cinque giorni di coma
Restano i misteri inquietanti del suo potere e del ruolo di Cosa Nostra nella storia repubblicana
C’è chi plaude alla sua morte, ma la giustizia non può diventare vendetta solo perché lo Stato si è dimostrato incapace
Per saperne qualcosa, basta leggere la voce monumentale che gli ha dedicato Wikipedia. Per capirne qualcosa, non è sufficiente l’immensa bibliografia che gli hanno dedicato giornalisti, storici e criminologi.
Totò Riina se n’è andato in maniera banale: stroncato dalla vecchiaia – 87 anni non sono proprio un fardello leggerissimo – e dai malanni mentre era detenuto a Parma, dove scontava il suo (meritatissimo) “fine pena mai” nelle condizioni (anch’esse meritate) più pesanti: isolato in massima sicurezza. Ma, aggiungiamo noi, anche “protetto” dalla durissima detenzione, che può essere un incubo per chi è nel pieno delle forze, in età attiva e riproduttiva.
Non certo per un criminale incallito abituato a passare da un rifugio all’altro per nascondersi da quella parte dello Stato che gli dava la caccia e da quella frazione di Cosa Nostra che non gli voleva troppo bene.
Non certo per un boss arrestato a 63 anni, mentre la sua, chiamiamola così, linea politica iniziava a non essere più vincente e la sua fortuna cominciava a declinare.
Rozzo e squadrato persino nell’aspetto (roba da ispirare più di un emulo di Lombroso) Totò ’u Curtu se n’è andato mentre dormiva il sonno del coma. E ha beffato lo Stato, dimostratosi per l’ennesima volta incapace di arrivare a una verità univoca, almeno dal punto di vista giudiziario, sugli avvenimenti terribili di cui il vecchio boss corleonese fu uno dei protagonisti assoluti.
Una morte banale, ripetiamo, simile a quella di Luciano Liggio e di Bernardo Provenzano, gli altri due big corleonesi, morti in galera per cause naturali.
Meno spaccone ed esibizionista del primo (che fu pure un truce macellaio), decisamente meno solenne del secondo, a cui la latitanza aveva conferito un’aura mitologica e tratti quasi ieratici, Riina resta un mistero.
A tal punto che chiunque si sia occupato e si occupi di lui continuerà a porsi una domanda: com’è possibile che una figura così grezza e di basso profilo abbia determinato la stagione più sanguinosa della storia della criminalità organizzata italiana?
Le risposte sono due. La prima è rassicurante: la rozzezza dei modi, della persona e della mentalità non impedisce di escogitare strategie sofisticate e di gestire quel po’ di potere che basta per mandarle a segno. In fin dei conti, Riina non comandava un esercito di lord e di viveur d’alta classe (sebbene qualcuno che tentò di fare il dandy ci fu: si pensi a Tommaso Buscetta, che, saltato il fosso, divenne uno dei principali accusatori di zù Totò). Questa ipotesi rassicura perché conferma quella narrazione della mafia che ricorda un po’ certi western: di qui i buoni, di là i cattivi. E lo Stato nei panni del mitico Settimo Cavalleggeri, coi suoi eroi e i suoi martiri.
La seconda risposta, forse più vicina alla realtà, inquieta: Riina e i suoi macellai non potevano ordire né realizzare alcunché se non avessero avuto alle spalle pupari potentissimi e occulti, che si è creduto di identificare in spezzoni dei Servizi Segreti, non solo italiani, nella Massoneria più o meno deviata e in conventicole blindatissime in cui esponenti di quelli e questa avrebbero brindato per anni assieme ai privilegiati di Cosa Nostra. Non ci insistiamo troppo perché basta digitare qualcosina su Google per ricavarne una mole di dati tale da impegnare l’esistenza di almeno dieci studiosi longevi.
Non è il caso di arrivare a tanto. Infatti, basta poco per dire che, con la fine di Riina – il quale si è portato appresso la quantità immensa di segreti con cui proteggeva dalla galera la sua famiglia grazie a un misto di silenzio impenetrabile e di dichiarazioni ora allusive ora sin troppo dirette – la parola passa agli storici.
I quali dovranno chiarirci, al netto dei pettegolezzi spacciati per notizie con cui la stampa ha intorbidato le acque per decenni, alcuni passaggi.
Il primo: non è vero che Riina fu l’eccezione “stragista” di Cosa Nostra, altrimenti “pacifica” e incline all’immersione e al sottobosco. Tutti i capi della generazione d’u Curtu si sono fatti largo tra ettolitri di sangue altrui. Riina, semmai, fu l’inauguratore del terrorismo mafioso, con cui le Cosche, messe in effetti alle strette, riscoprirono l’originaria vocazione di Antistato (quella che viene ribadita nei giuramenti e sopravvive nel gergo) e sfidarono quella parte delle Istituzioni che, per la prima volta nella storia repubblicana, si era messa contro di loro.
Secondo passaggio: Riina e i Corleonesi non furono gli homines novi, i barbari, della mafia. Sono stati, semmai, l’ultima generazione della mafia vecchia, che venne protetta purché non alzasse troppo la testa finché fu funzionale agli equilibri della Guerra Fredda, di cui l’Italia fu lo snodo più delicato. Riina e cumpari declinarono assieme al sistema di cui erano parte integrante, nel quale ciascuno faceva “il suo”: lo Stato gestiva l’ordine pubblico di un Paese a sovranità limitata, i partiti fabbricavano consensi nei limiti imposti dall’equilibrio strano in cui è cresciuto il nostro Paese e la mafia faceva la mafia.
Detto altrimenti: a Riina e a quelli che lo avevano preceduto il sogno dell’imborghesimento, coltivato con pervicace ferocia dai picciotti d’oltreoceano, era precluso. Lo stanno perseguendo gli eredi “politici”, ora che quell’alta finanza, che prima sfruttava l’opera e i capitali dei boss ma li teneva a distanza, gli ha aperto le porte. Lo possono perseguire ora, che la classe politica è scesa a un livello così meschino da non poter trattare più e si è ridotta al livello di portaordini del potere “vero”.
Ecco, la morte di Riina chiude un’intera fase, di cui forse non è più possibile ricostruire una verità giudiziaria esaustiva e convincente.
Il vecchio boss si è divertito a spararle grosse coi suoi fan, magari nella certezza che quel che diceva sarebbe stato intercettato e affidato alla stampa perché ci speculasse sopra. Ed è riuscito a far breccia nell’opinione pubblica, quella che giustamente s’indignava e quella che voleva vederci chiaro, fino alla fine.
«Io ho sempre fatto l’uomo d’onore, la persona seria», millantava Riina in carcere, «io sono un gran pensante. Io sono orgoglioso di tutto quello che ho fatto».
Dal suo punto di vista, aveva ragione. Infatti, è l’Italia che deve vergognarsi per aver fatto prosperare gente così e averla repressa quando era troppo tardi per fermarla.
Per questo è il caso di dissociarsi dai commenti feroci apparsi in rete non appena si è sparsa la voce della morte del macellaio di Capaci, i quali sono il prodotto di un Paese che ha perso ogni concezione della Giustizia e spera che la Vendetta ne faccia le veci.
Lasciamo la parola a chi di dovere, perché affiori qualche barlume della verità “vera”, finora offuscata dalle tante, troppe verità “di comodo”. Perché, siamo convinti, il silenzio e l’oblio non possono, non debbono essere risposte ai tanti dubbi e al troppo dolore suscitati da tante, incontrastate mostruosità.
Saverio Paletta
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