Chains Are Broken, la svolta elettrica di The Devil Makes Three
Mutamento di rotta sonora per la band di Santa Cruz, che diventa un quartetto e vira verso il rock blues senza rinnegare le radici acustiche
Forse il diavolo non fa i coperchi. In compenso fa tre e, quando può, rompe le catene.
È solo un gioco di parole per presentare Chains Are Broken, il nono album del quartetto californiano The Devil Makes Three (appunto…), uscito lo scorso autunno per la label indipendente New West Records.
Le undici canzoni dell’album rappresentano un tentativo piacevole e ben riuscito di dare l’assalto al mainstream e, allo stesso tempo, sono l’esito di due cambiamenti non proprio secondari.
Il primo riguarda la line up: conosciuti in circa diciassette anni di carriera come un trio (costituito dal chitarrista-cantante Peter Bernhard, dal chitarrista-banjoista Cooper McBean e dalla contrabbassista italo-americana Lucia Turino) dedito a un miscuglio curioso ed efficace di temi punk e suoni root blues, i diavoli di Santa Cruz hanno incorporato, parrebbe in via definitiva, Stefan Amidon, il batterista che ne ha potenziato per anni il sound in tour.
La seconda novità riguarda la produzione, affidata a Stefan Amidon, che ha contribuito non poco a virare la produzione verso il rock, non senza qualche ammiccamento alle radio.
Ed ecco che il risultato è un country blues gradevole e ruffiano (dice qualcosa il fatto che i Nostri abbiano inciso a Nashville?), in cui riecheggiano a tratti alcune reminiscenze di Bob Dylan e di Crosby, Stills, Nash & Young.
Sì, signori, è l’America profonda che parla, anzi canta. Di più: è un modo profondo di concepire l’America che si esprime nelle tracce di questo lp. E lo fa benissimo.
Via il banjo e il fiddler dei precedenti album, le chitarre spadroneggiano alla grande ma non in maniera invadente.
Come il fraseggio strascicato che fa da tema alla title track, in cui Bernhard canta con un tono stentoreo: «Chains are brocken/I’ve been set free», con toni dylaniani in perfetto equilibrio tra folk e country.
Il piglio country diventa più deciso nella ritmata Pray For Rain, un brano che non ci stupiremmo di sentire in un rodeo.
La matrice root emerge invece nella più cadenzata Paint My Face, dotata di un coro trascinante ma non banale.
Can’t Stop si segnala invece per un andamento anni ’60, con una piacevole sovrapposizione di un motivo pop a un ritmo jungle.
Need To Loose è un county blues spedito da bar per camionisti (o cowboy, fate voi).
Oscura, notturna e malinconica, All Is Quiet è una ballad piena di suggestioni dark dalla grande atmosfera e priva di sdolcinatezze. Il massimo del soft che i diavoli possono concedersi.
Bad Idea sposta di nuovo il timone su una rotta più rock e sembra di sentire di nuovo Dylan, ma accompagnato dai Rolling Stones.
Deep Down è un riuscito crossover tra country blues e rock and roll, che trova il punto di forza in un uptempo godibile (e, per chi vuole, ballabile).
Native Son è una ballata country di maniera, da ascoltare vicino a un falò al chiaro di luna.
Castles aggiunge un ritmo vagamente reggae all’approccio root del quartetto: anche se non precisamente allegra, la canzone spezza un po’ i toni in prevalenza notturni dell’album in favore di un approccio più rilassato.
Chiude la dolce Curtains Rise che commenta i titoli di coda di Chains Are Broken con un’atmosfera sognante.
The Devil Makes Three sono riusciti a dimostrare di poter mantenere la propria coerenza root anche con un suono (tendenzialmente…) più elettrico e rock e aprirsi a nuove suggestioni sonore senza snaturarsi.
Non è poco davvero.
Per saperne di più:
Il sito ufficiale dei The Devil Makes Three
Da ascoltare:
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