Conforto, una spia comunista nel cuore di Roma
Siamo senz’altro solidali con Giuliana Conforto, quando, a proposito di suo padre Giorgio, ha affermato sul suo sito web: «Secondo il dossier Mitrokhin, mio padre era una “spia” del Kgb in Italia. “Spia”? Mio padre credeva nel socialismo che, all’epoca del fascismo e della guerra mondiale era rappresentato dall’Urss. La sua tesi era che “non sono i popoli che vogliono la guerra ma i governi”. Un concetto molto semplice e di straordinaria attualità che illustra il sogno di milioni e milioni di uomini, l’unità di tutti i popoli della terra. E non solo sarebbe stato “spia”, ma addirittura il “capo-rete del Kgb” in Italia. Chi lo ha conosciuto e riconosciuto lo spessore profondo dei suoi sentimenti, la sua natura romantica e timida sa che era sì intelligente e colto ma non aveva la natura del capo».
La dichiarazione risale al 2004, ma già nel 2002 la signora Conforto aveva rilasciato dichiarazioni simili al giornalista Francesco Grignetti, che le pubblicò nel volume Professione spia. Dal fascismo agli anni di piombo, cinquant’anni al servizio del Kgb (Marsilio, Venezia 2002), dedicato, appunto, alla figura enigmatica di Giorgio Conforto.
Il libro di Grignetti, tra l’altro, riapriva una ferita non del tutto curata e legata ai postumi terribili del delitto Moro, in particolare all’arresto, avvenuto il 29 maggio 1979, dei brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci, rifugiatisi sotto falsi nomi proprio a casa della Conforto.
La deposizione resa il 27 aprile 2016 dal maresciallo di Polizia in pensione Antonio Mainardi alla Commissione Moro e riportato da Stefania Limiti il giorno successivo su Il Fatto Quotidiano, sembra troncare di netto la vicenda, fino ad allora caratterizzata dalla dietrologia più spinta. No, non sarebbe stato Giorgio Conforto a soffiare alla polizia che Morucci e la Faranda si rifugiavano da sua figlia Giuliana, tra l’altro risultata inconsapevole delle loro identità, per salvare quest’ultima dai rigori della legge, perché l’informazione decisiva proveniva da altre fonti, individuate da Mainardi.
Parrebbe, almeno per questo aspetto, che la verità storica coincida con quelle giudiziaria, da cui la Conforto è uscita assolta.
Tuttavia, è proprio in seguito all’arresto dei due brigatisti, che il nome e la biografia di papà Giorgio riprendono a girare negli ambienti dei servizi segreti, che in quattro e quattr’otto preparano un dossierone su di lui. I materiali non mancano. Anzi, stando a quanto riferisce Grignetti, si sarebbero accumulati sin dai tempi del Sifar.
In quel momento storico delicatissimo, in cui fallisce il compromesso storico e l’Italia, stanca del sangue e delle contrapposizioni cruente, rifluisce nel disimpegno, le istituzioni si ricordano che Giorgio Conforto era una spia del Kgb. E non una spia qualsiasi, ma addirittura un capo delle rete.
Tralasciamo l’episodio legato al delitto Moro, sostanzialmente risolto sebbene le recenti dichiarazioni di Mainardi non abbiano fugato tutte le suggestioni, che merita un approfondimento a sé.
È il caso, invece, di concentrarsi sulla biografia, davvero eccezionale, di Conforto: funzionario ministeriale, intellettuale dall’ispirazione socialista e libertaria, vicino anche a posizioni della massoneria, pubblicista acuto e più che prolifico e, appunto, agente sovietico. Serve altro per definirlo interessante, molto interessante?
Giorgio Conforto è nato a Roma, in una casa di via Tasso che oggi non esiste più, nei pressi di quella via Merulana, dove Carlo Emilio Gadda avrebbe ambientato circa quarant’anni dopo il suo Pasticciaccio brutto. È figlio di Francesco e Giuditta Pierboni, due maestri elementari di orientamento socialista. La sua è una famiglia numerosa, cinque figli, che vanta ascendenze illustri: alla sua bisnonna materna Giuditta Tavani Arquati, pasionaria e martire dei moti risorgimentali, sono intestate varie zone della capitale, sua nonna Adelaide, figlia di Giuditta, sposa Napoleone Pierboni, un altro cospiratore risorgimentale. Da loro discende il ramo perbene e potente della famiglia, che confluisce nel fascismo.
Giorgio si divide tra gli studi e il socialismo: frequenta il classico eppoi si laurea in Giurisprudenza a ventuno anni, con una tesi su un argomento inconsueto e insospettabile, specie in un momento in cui la fascistizzazione è in una fase avanzata: Scuola positiva italiana e diritto penale sovietico. O forse no, perché nella ricerca il fascismo (ancora) non faceva troppi controlli e poi perché tra i suoi maestri c’era Enrico Ferri, grande giurista, positivista di fede socialista e allievo di Cesare Lombroso.
Conforto cerca di impegnarsi e di lavorare come può: sogna la carriera diplomatica e studia le lingue, approfondisce il russo e gira l’Italia tra un impiego e un altro. Si iscrive persino al Partito nazionale fascista nella speranza di trovare un lavoro stabile. Ma simula nero e pensa e sente rosso: Conforto entra a contatto con il Partito comunista clandestino. Conosce e frequenta Pietro Grifone, economista già compagno di banco di Giorgio Amendola al liceo Visconti. Lui e Visconti entrano del Club alpinistico italiano, che trasformano di fatto in una cellula comunista. Poi arrivano i contatti coi sovietici, quelli veri: nel 1931 si trasferisce a Savona, dove lavora per la Petrolea, la società mista di carburanti italo-sovietica, che già allora l’Ovra, la polizia politica fascista, considera un covo di spie.
Ma il salto di qualità, stando alle carte (in particolare al dossier Mitrokhin) avviene l’anno successivo, quando va a Milano a lavorare per la delegazione commerciale dell’Urss. È lì che entra nel Kgb, grazie probabilmente ai buoni uffici di Michail Leverson, il capo dell’ufficio della delegazione milanese.
Assume vari nomi di battaglia: Bask, Spartak, Chestnyy e il latineggiante Gaudeamus. Ma uno lo rende famoso: Dario.
Diventa capo di una rete: in tale qualità si specializza in dattilografe: assume cioè, come sottoagenti, varie dattilografe che lavorano per il Ministero degli Esteri. Loro copiano rapporti e veline, lui li raccoglie e li passa ai suoi referenti, che li fanno arrivare a Mosca.
Ufficialmente, Giorgio è l’interprete della delegazione, ma ormai all’Ovra sanno di lui. E lo arrestano. Due volte. La prima resta pochi giorni in carcere: le accuse che lo riguardano toccano più la sua militanza comunista che il suo ruolo di spia. Torna a Roma e lì, in seguito ad altre soffiate, lo arrestano di nuovo.
Le accuse sono pesanti ma non toccano i suoi rapporti con i sovietici. Ma per il giovane agente segreto le cose stavolta sono più dure: non a caso un ruolo non secondario sarebbe giocato non solo dalla madre, che invia suppliche su suppliche al Duce, ma anche dal cugino Piero Pierboni, persona di spicco vicina al regime. Infatti, racconta Grignetti nel suo libro, dell’affaire Conforto si occupa Arturo Bocchini (il potente e temuto capo dell’Ovra, considerato da molti uno dei più grandi e validi poliziotti italiani), che riceve la madre e la sorella di Conforto e le rassicura: Giorgio tra non troppo sarà libero.
Così avviene. Ma per ottenere la libertà, Giorgio deve fare il classico atto di sottomissione: una lettera di abiura al Duce. Nulla di che, ma pur sempre un’arma in mano al regime. Lui la scrive e le cose cambiano.
Dopo poco ottiene un certificato di buona condotta politica, vince un concorso al Ministero dell’Agricoltura ma viene distaccato a quello degli Esteri, per conto del quale lavora al Centro studi anticomunista, un organo ufficioso di propaganda, dove Conforto ha modo di conoscere e frequentare alcuni intellettuali in vista del fascismo.
Secondo il dossier Mithrokin, Conforto vi si sarebbe infiltrato su ordine del Kgb. Ma i fascisti non sospettano nulla.
Infatti si dedica a un delicato doppio gioco, a volte anche triplo: spia i tedeschi per conto degli italiani e i russi, soprattutto alcuni sedicenti esuli zaristi, per contro di entrambi e, probabilmente, spia tutti per conto dell’Urss.
Diventa una macchina di informazioni. Anche se, c’è da dire, della sua vita in questo periodo si sa poco, se non che si è sposato e ha migliorato il proprio tenore di vita.
Poi l’Italia entra in guerra e inizia a pullulare di spie. Soprattutto sovietiche. E Giorgio ne paga le conseguenze: in seguito allo smantellamento di una rete spionistica sovietica, che addirittura è annidata alla grande nella sede diplomatica tedesca, il giovane funzionario, che nel frattempo ha lasciato il Centro studi e lavora come interprete per il ministero degli Esteri viene arrestato di nuovo. Con lui, finisce nella retata Ruggero Zangrandi, che sarà suo compagno di prigionia. Dapprima a Regina Coeli, poi in Germania, dove i due rischiano il plotone d’esecuzione.
Le cose, per fortuna, vanno altrimenti: la Germania perde la guerra e i due vengono liberati in circostanze strane. Un ss, così racconta Grignetti, li consegna ai sovietici, che nel frattempo sono arrivati a Berlino.
Tornato in Italia, Conforto riprende la vita di prima: torna al Ministero dell’Agricoltura, continua ad assoldare dattilografe e segretarie per il Kgb e riprende con la politica. Ma non milita, come sarebbe stato prevedibile, nel Pci, bensì nel Psi. Probabilmente perché, racconta ancora Grignetti, i sovietici non vedono di buon occhio il fatto che i membri del Kgb militino nel partito di Togliatti, allora quinta colonna russa in Italia.
Ma nel Psi Conforto non ha vita facile: ne viene espulso e vi rientra grazie ai buoni uffici della Residentura, cioè la sede romana del Kgb.
Non si ferma neppure la sua vulcanica attività intellettuale: si avvicina a Finocchiaro Aprile, l’ex leader del Mis, il Movimento per l’indipendenza della Sicilia, e influentissimo massone. Conforto non aderisce alla massoneria, ma ne fiancheggia alcuni temi: soprattutto l’anticlericalismo e il libero pensiero. Infatti, aderisce all’associazione Giordano Bruno e vi svolge un’intensa attività pubblicistica.
La sua vita pubblica finisce nel 1968, anno in cui va in pensione e, a quanto si sa, rallenta di molto anche la propria attività spionistica. Proprio in questo periodo ottiene la stella rossa, l’onorificenza che lo Stato sovietico dà ai suoi più fidati collaboratori.
Di questa medaglia si è parlato un po’ dappertutto, ma la figlia Giuliana nega di averla ritrovata nella casa paterna.
Poi arrivano gli anni di piombo e l’intricata vicenda del delitto Moro. Conforto morirà libero e sereno nel 1986.
La sua vicenda, conosciuta ampiamente dai servizi segreti italiani, diventerà di dominio pubblico in seguito alla divulgazione del dossier Mitrokhin in Italia. Ed è riemersa di recente, in seguito ad alcune rivelazioni del quotidiano Il Tempo (2014), secondo cui la parte del dossier che riguardava conforto sarebbe stata alterata, forse per coprire il fatto che Togliatti sapeva del ruolo di Conforto.
Ma questa, come altre, sono ipotesi da verificare. Resta una domanda: chi fu davvero Conforto?
Ha ragione sua figlia a ritenerlo un idealista. Ma l’idealismo può davvero spingersi al punto da indurre una persona a prendere la strada della militanza più estrema, cioè a diventare agente segreto di un Paese straniero, per giunta ostile all’Italia?
Questione di punti di vista: Conforto operò le sue scelte in un campo ideologico e non a favore di un contesto nazionale. Diventò filosovietico e spia per favorire un progetto più che uno Stato. La fine della guerra fredda ha rovesciato il paradigma e ha rimesso al centro della riflessione storica anche l’interesse nazionale, sulla cui base il comportamento dell’ex travet risulta senz’altro censurabile.
Una vittima dei cambiamenti: molti, che hanno lottato per alcune idee, sono stati riabilitati postumi, dopo che queste si sono affermate. Altri, come Conforto, hanno subito la sconfitta del proprio campo. Ma alla fine dei conti, ciò che importa è la buonafede delle scelte e la coerenza con cui le si è vissute. E, da questo punto di vista, a Conforto non si può rimproverare nulla.
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