Do you remember Bettino? Quando il Psi fece fuori la Rivoluzione d'ottobre
Facciamo finta che Tangentopoli non ci sia stata. E non per eludere una questione morale che nessuno, soprattutto i più accaniti forcaioli, è riuscito a risolvere e che ora si ripresenta al peggio.
Ma perché il craxismo e la stagione del potere socialista non possono risolversi in quell’inchiesta giudiziaria, che ha promesso tanto, mantenuto poco e cancellato in maniera impropria una classe politica intera. Con un solo risultato certo: il Psi pagò per quasi tutti e più di tutti colpe collettive. A tacere del fatto che chi è venuto dopo e si è fatto strada a spallate in nome delle Mani Pulite (tali soprattutto per incapacità di fare ed esclusione dal potere) è riuscito a far peggio.
Ecco, non impegniamoci in questa discussione e parliamo, invece, di politica. In questo caso, lo impongono le date e le ricorrenze, che l’editoria celebra con la consueta, necrofila precisione.
Al riguardo c’è da dire che stiamo per assistere una curiosa coincidenza di tre anniversari: l’imminente centenario della Rivoluzione russa, il quarantennale della tragedia di Aldo Moro, che scatterà a partire da marzo, e, infine, il quarantennale del Vangelo Socialista, il saggio con cui Bettino Craxi, alla fine d’agosto del 2008, operò, anzi dichiarò lo strappo definitivo tra il suo Psi, ereditato pressoché ai minimi termini dalla segreteria di Francesco De Martino, e quella parte della tradizione marxista rivista e corretta ad uso rivoluzionario da Lenin e riadattata alla situazione italiana (ma non solo…) da Antonio Gramsci.
La storia è piuttosto nota: Craxi fu sollecitato nell’agosto ’78 da Livio Zanetti, all’epoca direttore de l’Espresso, a replicare a Enrico Berlinguer, che aveva rilasciato in quel periodo un’intervista a Eugenio Scalfari per Repubblica.
In quell’intervista l’allora (celebre e amato) segretario del Pci confermò il legame tra l’ideologia del suo partito e il leninismo, sebbene riveduto e corretto per un improbabile uso occidentale. O meglio, ammorbidito quel che a giudizio del grande leader sardo bastava per non terrorizzare i ceti medi italiani che pure, in buona parte, avevano scommesso sul compromesso storico e sulla conseguente, sperata, svolta moderata del più grande partito comunista dell’Occidente.
Craxi rispose firmando un saggio commissionato qualche tempo prima a Luciano Pellicani e dedicato all’anarchico francese Pierre-Joseph Proudhon. L’articolo uscì il 27 agosto e fu una bella mazzata per molti italiani, che ancora affollavano le spiagge.
Intitolato, appunto, Il Vangelo Socialista, il saggio diede la stura a un dibattito, che sarebbe impazzato fino a metà settembre su tutte le principali testate italiane, non solo di sinistra.
Il paragone con l’attualità risulta decisamente ingeneroso: oggi, pur di vendere qualche copia sulle spiagge, i giornali e i periodici si dedicano alle retrospettive della cronaca nera, di cui riscavano i cold case più truci e pruriginosi, e, quando ne parlano, riducono la politica a gossip. Allora, in quella torrida estate di 40 anni fa, tra i topless patinati di Novella 2000 e le note degli Homo Sapiens, gli italiani si dilettavano a scorrere e commentare il dibattito, raffinato e furibondo al tempo stesso, ingaggiato dalle migliori firme della cultura (politica e non solo) italiana sulle colonne de L’Unità e di Avanti! (quelli veri), de Il Manifesto, del Corrierone, di Repubblica, ma anche di Rinascita, de Il Tempo e de Il Giornale Nuovo. E non era roba da poco: in quell’occasione incrociarono le armi, anzi le penne, big come Leo Valiani, Giuseppe Bedeschi, Norberto Bobbio, Luigi Pintor, Claudio Martelli, lo stesso Luciano Pellicani e Luciano Cafagna. Scusate se è poco.
Oggi è possibile godersi di nuovo tutta la querelle grazie all’iniziativa di Nunziante Mastrolia, politologo e docente di Geografia politica alla Luiss, che ha ripubblicato tutti gli articoli in Il Vangelo Socialista (Licosia, Ogliastro Cilento, 2016). Quest’antologia, aggiungiamo per completezza, riprende quella, ormai introvabile, curata nel ’78 da Claudio Accardi per la milanese Sugarco e intitolata Pluralismo o leninismo.
Ma qual è il senso dell’operazione di Mastrolia? Di sicuro il gusto per il vintage fa la sua brava parte. Ma c’è da dire che il dibattito ritrova una sua particolare attualità grazie alla crisi della sinistra odierna, priva letteralmente non solo di concrete possibilità operative, ma anche di riferimenti culturali concreti e convincenti.
Discettare di socialismo, socialdemocrazia e leninismo e leggerli, come fece il duo Craxi–Pellicani, come elementi antitetici di un’unica tradizione culturale, allora aveva un senso fortissimo: significava ricordare all’opinione pubblica che la sinistra era un’entità politica plurale, a dispetto anche di una certa lettura gramsciana canonizzata dal Pci e di cui Berlinguer era nei fatti prigioniero, più che compatibile, in alcune sue componenti, con le esigenze delle democrazie occidentali. Detto altrimenti: il socialismo poteva realizzarsi nei sistemi liberali non solo senza spargimenti di sangue (che anche il Pci, va detto, aborriva), ma anche senza distruggere le garanzie dello Stato di diritto elaborate dalle dottrine borghesi. Superare la liberaldemocrazia, insomma, non voleva dire distruggerla.
Mastrolia, al riguardo, svolge un’ineccepibile operazione verità nella sua corposa Introduzione: ricorda a tutti come il Berlinguer che riteneva invece il leninismo compatibile con le democrazie non possa essere considerato un riformista, ma, più semplicemente, fosse un ostaggio. Della tradizione migliorista inaugurata da Palmiro Togliatti (e dalla rilettura togliattiana di Gramsci) e della situazione internazionale dell’epoca, in cui l’Urss viveva, grazie anche alla debolezza dell’amministrazione Carter, l’ultima fase di espansione geopolitica, nella quale, così avrebbero in seguito confermato i rapporti dell’intelligence statunitense e non solo, il Pci era considerato ancora una pedina fondamentale (ma senza scavare troppo negli archivi, si possono trovare conferme di questa situazione nelle opere ponderose di Valerio Riva e di Viktor Zaslavskij). Parlare di riformismo, in questo stato di cose – in cui il Pci era ostaggio dei propri rapporti internazionali, forse non più di sudditanza ma comunque di forte condizionamento, e la sua classe dirigente prigioniera di una buona fetta della base e dei quadri – ancora oggi risulta un azzardo.
Mastrolia, basandosi sulla rilettura craxiana di Proudhon, conviene su un fatto essenziale: anche nella versione ammorbidita di Berlinguer, il leninismo restava incompatibile con il nostro sistema costituzionale, che inquadrava l’Italia nelle democrazie occidentali ad economia capitalistica, basate sul pluralismo politico ed economico. A riprova di ciò, il professore delle Luiss cita gli articoli 41 e 42 della Costituzione, che tutelano la libertà d’impresa e la proprietà privata.
In realtà la situazione è meno netta di come la dipinge Mastrolia: è vero che la libertà d’impresa è tutelata dall’articolo 41, ma è altrettanto vero che la stessa norma subordina questa tutela alla funzione sociale dell’impresa; l’articolo 42, invece, tutela la proprietà solo in maniera indiretta, non la definisce come diritto e rimanda ogni specificazione alla legge ordinaria. In breve, come hanno argomentato non pochi giuristi di vaglia, a partire da Stefano Rodotà, queste norme risultano sostanzialmente ambigue, perché da un lato, è vero, ancorano l’Italia ai sistemi occidentali, ma, dall’altro, contengono clausole a favore di ipotesi di democrazia socialista.
Ciò, detto per inciso, oggi non è un male: se i lavoratori hanno ancora una giurisprudenza che li tutela lo si deve alla sostanziale indefinitezza di questi due articoli.
Ma a rileggerli in prospettiva storica appare chiaro che il primo compromesso storico, di cui essi sono il frutto, fu stipulato nell’Assemblea Costituente e che quello di Berlinguer fu il tentativo, meno forte di quanto non si creda, di aggiornare quell’accordo con il mondo cattolico.
Mastrolia non risponde a una domanda che emerse dal dibattito di allora: come mai Craxi omise dal suo album di famiglia figure importanti come Turati, che pure aveva tanto da dire ai riformisti? Fu semplice sciatteria dovuta alla fretta oppure c’era dell’altro?
L’accostamento tra Proudhon e Carlo Rosselli non è sciatto né casuale, ma rifletteva l’intenzione di creare la rottura con la tradizione leninista non al di fuori ma dal di dentro della cultura rivoluzionaria. Cioè, il tentativo di recuperare in una nuova visione politica della sinistra, le critiche al leninismo senza scivolare direttamente nella socialdemocrazia (e nel suo problematico e virulento anticomunismo incarnato dal Psdi). Passare da un anarchico a un liberalsocialista significava rompere del tutto con una visione ottocentesca del socialismo, all’interno della quale i riformisti classici avevano invece un ruolo di primo piano, e rifondare il socialismo su basi libertarie, forse più compatibili con l’idea del conflitto regolato dalle norme.
Significava, inoltre, lanciare un’opa sull’area laica (repubblicani, liberali e radicali), costretta altrimenti a barcamenarsi tra i blocchi di potere della Prima Repubblica, a cui anche il Psi era di fatto subalterno.
Significava, infine, rompere con una tradizione culturale che aveva ingessato la sinistra e impedito un discorso costruttivo e ampio sulle riforme, delegate al ruolo, questo sì egemone, della Dc.
Non è un caso che il dibattito e il relativo affondo socialista sul leninismo siano arrivati in quell’ultimo scorcio d’estate di quarant’anni fa: col dramma di Aldo Moro iniziava il riflusso delle Br, che sarebbero state sgominate a partire proprio dai quei mesi, e, soprattutto, di quella cultura leninista di cui erano impregnate le formazioni clandestine ed extraparlamentari italiane. L’affondo fu tanto più insidioso perché portava un messaggio di ridimensionamento del conflitto, se non addirittura di pace sociale, a un’opinione pubblica stanca.
Comunque sia, proprio grazie a quest’operazione Craxi si rivelò un leader di prima grandezza, dopo due anni circa di segreteria caratterizzati soprattutto da esigenze di sopravvivenza e tentativi di rinnovamento del Partito socialista.
Chiedersi perché queste istanze modernizzatrici, efficienti ed efficaci nel Psi, non si rivelarono altrettanto dirompenti nelle istituzioni non è ozioso. Certo è, e lo hanno ribadito alla grande Simona Colarizi e Marco Gervasoni nel loro bel La cruna dell’ago (Laterza, Roma-Bari 2006), che la parabola di Bettino Craxi non può essere ridotta solo a una faccenda di tangenti e corruzione. Ha pesato molto semmai, il fatto che Craxi operò in un sistema sclerotizzato e all’interno di una situazione mondiale, il bipolarismo della Guerra Fredda, prossima alla fine.
Ma il fallimento del riformismo socialista resta una lezione inascoltata: non a caso, tutti i tentativi posteriori di riformare il sistema italiano sono falliti in maniera impietosa uno dopo l’altro.
Perché riprendere, allora, un dibattito di quarant’anni fa? Perché no? La lezione, forse non impartita bene, certo applicata male e di sicuro inascoltata, partiva da lì.
È il caso, allora, di riavvolgere il nastro e prendere appunti: i fallimenti dei giganti ci aiutano a capire meglio i nostri.
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