Addio a Rodotà, l’ultimo grande calabrese
Sfiorò l’elezione al Quirinale. Fu l’unico nato a Sud della Campania a farlo
A 84 anni suonati si può morire, anche oggi che l’accresciuta durata della vita potrebbe far sperare in altri traguardi. Perciò la scomparsa di Stefano Rodotà, uno dei più grandi giuristi italiani dell’ultimo secolo, potrebbe non far notizia.
Mentre i coccodrilli, confezionati in tutta fretta, fanno il giro del web e spuntano sui tg, è il caso di evidenziare un dettaglio non secondario: il cosentino Rodotà, civilista per formazione e dotato di una passione politica che lo ha portato a indagare a fondo e con originalità i problemi dei diritti civili, è stato l’ultimo grande calabrese. L’unico calabrese ad aspirare al Quirinale.
Calabrese due volte: perché nato a Cosenza e perché rampollo di una famiglia arbreshe, cioè discendente di quegli albanesi che secoli fa scelsero la Calabria come rifugio dai turchi. Anche lui fu emigrato, ma di lusso: si era formato allo storico liceo classico Bernardino Telesio, all’epoca la scuola di élite della sua città. Una scuola da figli di papà? Certo, era anche questo, quel liceo. Ma, a rileggere i registri di quegli anni, fu anche la scuola che consentì a tanti figli di nessuno di fare il salto di qualità e diventare padri di qualcuno. La sua famiglia, che aveva già prodotto intellettuali e prelati, era inserita nel giro di quegli antifascisti che, nel dopoguerra, sarebbero stati protagonisti di primo piano della prima repubblica. Suo padre Antonino, ad esempio, era un habitué della famiglia Mancini e un suo zio fu segretario della Dc di Riccardo Misasi.
Stefano, invece, puntò tutte le sue carte sul mondo accademico: già allievo di Ugo Betti, ottenne la cattedra a suon di pubblicazioni e poi si dedicò alla politica, come indipendente del Pci, che lo portò in Parlamento. Comunista lui? Proprio no: l’amore per le libertà individuali, fortissimo nel suo approccio politico e nella sua produzione scientifica (anche quella più specialistica), ne faceva, semmai, un liberale di sinistra. Eppoi, come ribadisce Il terribile diritto, un bel libro con cui qualche studente di Giurisprudenza ha fatto in tempo a misurarsi, lui alle libertà accompagnava sempre l’aspetto sociale. Lbertà come dovere: forse proprio questo è stato il filo rosso (ma non troppo) attraverso cui rileggere l’opera di Rodotà, fino all’ultimo Diritto e giustizia. Caustico verso un ambiente in cui non si riconosceva più, quegli ex funzionari comunisti convertitisi al verbo renziano, il grande giurista calabrese fu recuperato dai dissidenti di Sel e dai grillini, quando ancora oscillavano a sinistra. Poi, sconfitto da Napolitano, mollò la presa.
La sua Calabria era già sparita da un pezzo: col tracollo della Prima Repubblica, il Profondo Sud non è riuscito più a produrre personalità di spicco. Il vecchio Giacomo Mancini si era ritirato a Cosenza, per morirvi con la fascia tricolore addosso. Misasi era morto dopo essersi ritirato a vita privata. E la punta dello Stivale, grazie anche a questi vuoti, si è avvicinata pericolosamente al Maghreb.
Ma questo vuoto, pesantissimo nella politica, disertata sistematicamente dalle élite vere, tocca anche la sfera del diritto: Rodotà fu un giurista di grande sensibilità e cultura. Dopo di lui e quelli come lui, ci saranno solo dei tecnici, non dissimili da quel plotone di avvocaticchi che occupa il Parlamento. Anche di questo declino si sentono già le avvisaglie.
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