Tiara, la salvezza del mondo secondo i Seventh Wonder
Un concept album della band svedese racconta il viaggio catartico di una bambina in nome dell’umanità. Dopo otto anni tornano i big del power metal progressive nordeuropeo con una raccolta di brani di gran classe
Tiara è una bambina. Tiara, non si sa perché, riesce a comunicare con un’Entità Superiore decisa a punire l’umanità.
La piccola è inviata in missione presso questa Entità Superiore – divina? aliena? – per perorare la causa del genere umano. Ma non riesce a scolparci e, al ritorno, è accusata addirittura di tradimento. Però non tutto è perduto: la sincerità della piccola è apprezzata dall’Entità che decide di non punirci più e, anzi, di aiutare gli esseri umani nel loro cammino di redenzione.
Fin qui, la trama di Tiara, il concept album con cui gli svedesi Seventh Wonder tornano, otto anni dopo il riuscitissimo The Great Escape, dopo essere approdati alla Frontiers.
La formula è quella consueta: un progressive metal dalla robusta matrice power e dallo spiccato gusto melodico, roba che solo veri maestri possono interpretare senza scadere nella stucchevolezza o nell’imitazione.
E al riguardo non c’è proprio nulla da dire sulle prestazioni del chitarrista Johan Liefvendhal, capace di dosare i suoi virtuosismi con grande equilibrio e senso della canzone. Né sulla visione d’assieme del bassista Andreas Blomqvist, altro asso dello strumento e principale compositore della band e produttore dell’album, capace assieme al batterista Stefan Norgren di cambi di ritmo repentini e di tempi che definire arditi è poco. Il tutto, come sempre, è ben amalgamato dalle tastiere di Andreas Soderin che riempie di atmosfera il sound della band senza ammorbidirne l’impatto, come da tradizione power.
Da applausi la performance del frontman Tommy Karevik, che dal 2012 presta la sua voce potente e cristallina agli statunitensi Kamelot.
Tiara, in sintesi, è l’esempio perfetto di come dovrebbe essere un album di prog metal contemporaneo e, a voler fare i pignoli, proprio in questa perfezione potrebbe essere il limite di quest’operazione, che a volte suona un po’ algida. Ma è giusto un dettaglio, che non sminuisce di una virgola un lavoro di altissimo livello.
Arrival apre l’album con una marcia pomposa delle tastiere che evocano atmosfere hollywoodiane. Non si poteva pretendere nulla di meno da un album dalla marcata impronta cinematica.
The Everones parte con un riff tostissimo su tempo dispari e si snoda su vari cambi di tempo ben cavalcati dal cantato arioso di Karevik che culmina in cori epici e grandiosi. Notevole anche la parte solista, in cui Liefvendhal si lancia in frasi classicheggianti dal sapore malmsteeniano, ma con un approccio più pulito rispetto a quello dell’illustre compatriota.
Più complessa nella struttura melodica, Dream Machine si muove tra i consueti tempi dispari e si basa sul gran lavoro di Blomqvist, che lancia il suo basso in stacchi fusion e contrappunta alla grande le scorribande della chitarra.
Against The Grain esalta l’aspetto più progressive della band e, pur senza rinunciare al riffing serrato, risulta più vario e meno pesante, anche grazie all’uso della chitarra acustica nell’introduzione e del pianoforte in alcuni passaggi cantati. Fortissimo il crescendo, che comunque non porta il brano su versanti compiutamente heavy, e notevole la parte strumentale, dove il bassista ancora una volta dà il meglio di sé.
La parte melodica dei Seventh Wonder raggiunge il massimo in Victorious, che esibisce un coro quasi aor. Ma va da sé che il quintetto non cerca il facile ascolto a tutti i costi.
Con Tiara’s Song (Farewell Pt. 1) inizia la mini suite in tre movimenti (Farewell, appunto) che costituisce il punto apicale dell’album. Più che notevole la performance di Karevik che forza alla grande e raggiunge tonalità altissime senza sporcare di una virgola.
Goodnight (Farewell Pt. 2) si snoda su un crescendo magniloquente da rock opera e sfocia in una parte strumentale in cui epicità e virtuosismi sono dosati alla grande.
Dopo tante scorribande è il momento della quiete. Perciò la mini suite termina con Beyond Today (Farewell Pt. 3), un brano soffice per tastiere (soprattutto piano) e voce, arricchito da una bella parte di violino e dai controcanti dei cori.
The Truth è una bellissima ballata dalle atmosfere epiche e dalle sonorità più rarefatte, arricchita da alcune particolarità (l’arpeggio di basso dell’introduzione) e da un coro meraviglioso, più un notevole bridge per voce femminile (di Jenny Karevik, la sorella del frontman).
Con By The Light Of The Funeral Pyres i Seventh Wonder mostrano la loro faccia più power con un brano aggressivo ma di gran classe e con la consueta, sofisticatissima parte strumentale.
Damnation Below è un brano volutamente oscuro e drammatico che si regge sulla performance di Karevik, meno cristallino ma più evocativo.
Procession è un breve interludio per sola voce e tastiere che introduce alla conclusiva Exhale, una pièce di nove minuti di densissimo prog metal dalle ritmiche serrate con la doppia cassa in bell’evidenza.
I titoli di coda di Tiara scorrono sulla versione acustica (voce e chitarra) di Tiara’s Song, che assume coloriture country-folk molto efficaci.
Ci hanno messo otto anni a tornare, ma ne è valsa la pena. I Seventh Wonder confermano col loro ultimo concept un invidiabile stato di grazia, segno che il prog scandinavo gode di ottima salute. Chissà che non decidano di rappresentare dal vivo tutto Tiara, magari nella forma di rock opera: lo spettacolo sarebbe più che assicurato.
Da ascoltare (e da vedere):
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