Autonomie nel casino. Titolo V, dalla riforma al caos
Si tenta di modificare la riforma del 2001, che ha potenziato le Regioni. La direzione è quella giusta ma i risultati sono insufficienti
La riforma del Titolo V è quella che, forse, ha ottenuto il maggior consenso dagli elettori. E c’è da scommettere che non pochi sostenitori del no l’avrebbero approvata se fosse stata presentata in un quesito a parte. Si tratta, è stato sostenuto autorevolmente, di una “riforma della riforma” con cui il governo Renzi tenta di fare un passo indietro dopo la revisione del 2001, con la quale, attraverso una devoluzione fatta per compiacere la Lega Nord (quella “dura e pura” di Bossi), le Regioni hanno ottenuto fette di potere consistenti (si pensi alla Sanità), ma anche oneri finanziari più forti.
Senza un collante forte che coordinasse il nuovo regime di autonomie, la Repubblica, che per l’articolo 5 della Costituzione è rimasta «una e indivisibile» è diventata “a più velocità”. Non ci si riferisce, ovviamente, solo alla forbice Nord-Sud, che in buona parte è aumentata, ma anche alle forbici tra territori, a Nord come a Sud.
Di più: le autonomie, aumentate fino a includere elementi di federalismo vero e proprio, hanno fatto arretrare le aree più povere del Mezzogiorno (si pensi alle tante maglie nere ottenute dalla Calabria dal 2001 ad oggi), ma hanno penalizzato pure il Settentrione. E il motivo è facilmente intuibile: l’impoverimento del Sud, che è stato il principale consumatore dei manufatti del Nord, ha rotto il meccanismo che negli anni ’80 aveva creato il mini boom dell’era Craxi ed era proseguito negli anni ’90. In seguito all’internazionalizzazione dei mercati dovuta all’ingresso dell’Italia nell’euro, il settore manufatturiero del Nordest si è trovato esposto al dumping dell’Europa ex comunista, che è diventato, pian piano, un mercato alternativo al nostro con costi, soprattutto del lavoro, più bassi. Inoltre, la possibilità della gestione diretta dei fondi Ue ha aumentato le disparità e le inefficienze. Con l’immancabile corollario della colonizzazione malavitosa di zone fino a qualche decennio fa considerate “virtuose”. Quest’ultimo processo, rivelato da una serie di inchieste che, per quantità e qualità non hanno nulla da invidiare alle attività che al Sud sono ormai ordinaria amministrazione, sono state agevolate dalla regionalizzazione del potere finanziario e di spesa. Non sembri un paradosso il fatto che eccellenti magistrati antimafia hanno considerato “l’accorciamento del braccio”, cioè l’avvicinamento tra elettori ed eletti agevolato dal sistema attuale delle autonomie, un volano per la malavita e, al contrario, il sistema di liste bloccate del Porcellum sia stato considerato un vaccino dal virus mafioso.
Parlano i numeri: la mafia è cronica al Sud e acuta in varie zone del Nord, il malaffare non conosce latitudini e i casi di cattiva amministrazione si verificano ovunque. Si pensi al crack di Alessandria, avvenuto sotto amministrazione leghista. E si pensi pure che, dopo le inchieste che hanno collassato l’amministrazione lombarda di Formigoni, anche la Lega ha corretto il tiro: passato in secondo piano il secessionismo e cambiato il nome con un’operazione spericolata di maquillage politico, i leghisti sono passati a tematiche populiste per occupare lo spazio lasciato dalle destre radicali.
Purtroppo, il passo indietro di Renzi rispetto all’attuale autonomismo spinto e confusionario, per quanto necessario, resta insufficiente.
Vediamo nel dettaglio perché.
Stando al leit motiv della propaganda “governativa”, lo scopo dei nuovi articoli 116 e 117 della Costituzione è riaccentrare allo Stato in maniera gerarchica la competenza legislativa in una serie di materie. Peccato solo per il linguaggio e il metodo da “decreto milleproroghe”, già utilizzato nella riforma del 2001 e ripetuto nella riforma attuale, per cui l’articolo 116, che descrive le Regioni a Statuto speciale viene prima del 117 che regola i rapporti legislativi tra lo Stato e le Regioni ma rinvia, nel suo terzo comma, a vari punti del 117. Ma c’è di più: l’articolo 116 non si limita a mantenere le autonomie speciali per Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta, ma addirittura le potenzia, perché il 117, nel riordinare le competenze, toglie poteri (ed è l’aspetto più positivo di tutta la riforma) alle Regioni a Statuto ordinario.
Per dirla nel gergo dei giuristi, il “combinato disposto” tra i due articoli risulta una mazzata che rende ancora più “diseguale” il territorio e ottiene l’effetto contrario a quello che, secondo la propaganda, ha ispirato il nuovo costituente: nel momento in cui si cerca di omologare le Regioni a Statuto ordinario, si aumenta il divario tra queste e le Regioni a Statuto speciale. Le prime, saranno in effetti ridimensionate, le seconde, invece, continueranno a fare quel che facevano prima, solo in maniera un po’ più ordinata (ma peggio della riforma del 2001, elaborata come graziosa concessione alla Lega, non si poteva fare).
Secondo l’articolo 117 lo Stato legifera in 21 blocchi di materie. Alcune scontate: per la difesa, per l’ordine pubblico, per la politica estera, per la moneta, per l’ordinamento e l’organizzazione dello Stato stesso non potrebbe essere altrimenti. Altre un po’ meno, ad esempio l’ordinamento della comunicazione e le infrastrutture strategiche.
Poi interviene la novità: la cosiddetta “clausola di supremazia”, contenuta nel comma 2 dello stesso articolo, dove si dice che: «Su proposta del Governo, la Legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale».
Tuttavia ciò non basta a sciogliere il nodo della Sanità, che è poi la voce che condiziona di più bilanci delle Regioni (al Sud si arriva al 75% della spesa pubblica su base regionale). Infatti, lo stesso comma 2 dell’articolo 117, tra le materie per cui la potestà legislativa spetta alle Regioni, contempla anche la «programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali». Detto altrimenti: le Regioni possono legiferare come vogliono finché il Governo non decide altrimenti. Messa così sembra più che altro una sorta di perenne spada di Damocle sulla testa dei presidenti regionali e di chi per loro proprio perché questa come le altre materie restano in un limbo in cui l’ultima parola tocca comunque allo Stato.
C’è dell’altro: il riparto delle competenze tra Stato e Regione è “solo” legislativo e non anche “amministrativo”. In parole povere, visto che la propaganda del fronte del sì non ha chiarito niente in proposito, non c’è un disegno di legge di riforma delle amministrazioni regionali in cantiere che possa far capire se Renzi voglia riaccentrare per davvero o i suoi hanno modificato gli articoli 116 e 117 solo per tenere “sotto scopa” chi governa le Regioni.
Veniamo agli altri enti locali, in particolare le Province: in teoria sono abolite, perché il nuovo articolo 114 non le contempla: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato».
Ammoniva al riguardo Norberto Bobbio: «Ciò che non è comandato o vietato è permesso». Perciò le Province non sono in effetti abolite ma potrebbero, finché non intervenisse una legge che facesse calare il sipario per davvero, continuare ad esistere, come continuano ad esistere tuttora enti inutili come le Comunità montane.
Un po’ poco. In questo caso, agli spin doctor di Renzi e della Boschi si può rimproverare di non essere stati abbastanza radicali e coraggiosi in una scelta che sarebbe stata davvero rivoluzionaria.
Il vero problema di questa parte della riforma è che non prova neppure ad intaccare il sistema localistico con cui, da trent’anni a questa parte, si è formata la classe politica italiana che, proprio per questo, è priva di una visione generale e di un’attitudine europea. E a proposito di Ue: se è vero che l’Europa ha chiesto una limitazione delle autonomie, è altrettanto vero che la risposta italiana risulta insufficiente. Sembra quasi che si abbia paura di scontentare i vari potentati locali, che poi sono quelli che, in un modo o nell’altro, hanno fatto arretrare l’Italia. Siamo al classico “vorrei ma non posso”. I vecchi maestri delle Elementari avrebbero detto: «Si applica ma non rende». Rimandato.
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