Vittime del Risorgimento, la reazione tardiva degli esperti
Dopo l’istituzione, in Puglia e in Basilicata, della giornata della memoria dedicata alle presunte vittime meridionali dell’Unità d’Italia, gli storici professionisti sono insorti e scoppiano le polemiche. Ma l’intervento degli esperti, opportuno e doveroso, è tardivo. Le pressioni dei “revisionisti” antirisorgimentali, precedute da una pubblicistica copiosa ma inconsistente a livello qualitativo, sono iniziate nel 2010. E finora hanno combinato parecchi danni…
Meglio tardi che mai? Forse. Certo è che della faccenda dei presunti Martiri del Mezzogiorno, gli storici professionisti si sono accorti con un ritardo mostruoso.
La doccia fredda è arrivata il 4 luglio, quando il consiglio regionale della Puglia ha approvato la mozione dell’esponente grillina Antonella Laricchia e ha istituito la giornata della memoria (l’ennesima, in Italia) dedicata alle vittime del Risorgimento.
Un’analoga mozione, sempre a spinta pentastellata, è stata approvata a marzo dal consiglio regionale della Basilicata. Per le altre Regioni del Sud sembra che sia questione di tempo: la Campania, ad esempio, ancora non ha approvato nulla, ma la giunte De Magistris ha eliminato dall’onomastica pubblica di Napoli il nome di Cialdini, il generale sabaudo che conquistò Gaeta. Quindi la linea di tendenza c’è.
Manca alla conta solo la Calabria, nel cui consiglio regionale il Movimento 5 Stelle non ha rappresentanti.
Ma anche lì il movimento sudista ha lanciato degli affondi non leggerissimi: è ancora fresca, ad esempio, la battaglia giudiziaria ingaggiata dal Comune di Motta Santa Lucia, spalleggiato dal Comitato tecnico-scientifico “No Lombroso”, contro il Museo Lombroso di Torino, accusato dalla vulgata neoborbonica, con la complicità della stampa meridionale, di essere un ossario di briganti meridionali o, peggio, di essere una sorta di monumento razzista dedicato alla minorità degli abitanti del Sud.
Bastano questi pochi cenni per far capire alcune cose.
La prima: dietro questa spinta, dietro la quale non mancano suggestioni reazionarie, c’è la suggestione della galassia neoborbonica, che ha vivacchiato per anni in posizioni di nicchia ed è esplosa nel 2010, in occasione della celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia.
Al riguardo, è facile osservare che la data scelta per quest’ennesima (e inutile) giornata della memoria, il 13 febbraio, sia quella della presa di Gaeta, giorno sacro per i neoborbonici, celebrato con raduni, manifestazioni e messe solenni, dove molti, nostalgici non solo dell’assolutismo ma anche del cattolicesimo autoritario del Sillabo, pregano con un accanimento degno di cause migliori e comunque più cristiane, al limite dello stalking nei confronti del Padreterno.
Seconda cosa: i motivi ispiratori della campagna culturale dei grillini meridionali ricalcano non poco i temi di certa pubblicistica, inaugurata dai libri di Lorenzo Del Boca e di Pino Aprile. È inutile dire che questa letteratura, di cui solo ora gli addetti ai lavori si accorgono, ricalca fedelmente le istanze e le rivendicazioni neoborboniche.
E così, attraverso l’unica battaglia culturale dei grillini i neoborbonici hanno ottenuto la prima vittoria politica.
Inutile andare a caccia di dettagli e di retroscena: i pochi elementi e finora esposti dovrebbero bastare a far capire che non si è trattato di coincidenze, ma di una vera e propria strategia politica, che tra l’altro ha ridato fiato ad ambienti destinati a un lento riflusso. Perché i grillini? La risposta appare semplice: perché il movimento meridionalista lanciato da Luigi de Magistris e a cui avrebbero dovuto aderire vari esponenti del Sud, tra cui, guarda caso, il governatore pugliese Michele Emiliano, è ancora a bocce ferme e i pentastellati, a caccia di consensi e disinvolti sul piano delle idee (e della coerenza), si sono prestati alla grande.
Occorre capire, a questo punto, in cosa consiste la reazione degli storici professionisti, che finalmente si sono fatti sentire, dopo anni di sottovalutazione sistematica del problema.
Capofila della reazione è la Sissco (Società italiana per lo studio della storia contemporanea), presieduta da Fulvio Cammarano e costituita da ricercatori e docenti, universitari e non. Il sito dell’associazione ha dedicato la propria home page a un dossier corposo e in progress su tutta la polemica giornalistica relativa alla vicenda.
Per fugare ogni dubbio, l’associazione ha pubblicato una dichiarazione d’intenti, con la quale stigmatizza i metodi e i contenuti di questa nuova giornata della memoria e lamenta l’esclusione dal dibattito politico delle istituzioni culturali, soprattutto accademiche.
Una dichiarazione simile, ma più dura nei toni contro i movimenti neoborbonici è stata pubblicata il 29 luglio dalla Aiph (Associazione italiana di public history), presieduta da Serge Noiret, già animatore della Sissco.
Ultima, in ordine cronologico, la Igs Italia (International Gramsci Society-Italia) ha lanciato il suo allarme sulla propria pagina Facebook. Nel caso dei gramsciani la presa di posizione era d’obbligo, visto che alcune frasi del grande leader sardo sono state utilizzate a mo’ di slogan dai sudisti dopo essere state stralciate alla meno peggio e decontestualizzate con rozzezza (dal mini saggio sulla Quistione Meridionale e dai Quaderni dal Carcere). Tuttavia, in questo caso, il ritardo è stato compensato da una petizione, lanciata attraverso change.org da Lea Durante, che chiede a Emiliano di fermare le macchine.
Penultima, sempre a livello cronologico, l’Ami (Associazione mazziniana italiana), presieduta da Mario Di Napoli, ha espresso «il proprio stupore e la propria indignazione» attraverso una nota pubblicata sulla home del proprio sito.
In prima fila nel coro critico c’è la Società napoletana di Storia patria, che ha aderito attraverso la presidente Renata De Lorenzo, anche per ricordare il contributo, pure di sangue, della migliore intellettualità partenopea alla causa risorgimentale e non solo. Con la Società napoletana hanno aderito le associazioni riunite nel Coordinamento delle società storiche, che menzioniamo per completezza, scusandoci per la brevità: Giunta centrale studi storici, presieduta da Andrea Giardina, Cusgr, presieduta da Lucia Criscuolo, Sis, presieduta da Simona Feci, Simed, presieduta da Stefano Gasparri, Sisem, presieduta da Luigi Masciii Migliorini, Sisi, presieduta da Leopoldo Nuti.
In questa sortita dalla cittadella assediata il mondo della cultura non è stato solo: il 2 agosto Irene Manzi, deputata marchigiana del Pd, ha depositato un’interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio e ai ministri dell’Istruzione e dei Beni culturali in cui riprende le forti perplessità della Sissco e chiede l’istituzione di un tavolo permanente con gli addetti ai lavori, cioè gli storici veri.
Il tentativo di rimonta c’è, mentre la polemica continua sulla stampa, finalmente con una novità felice: i sudisti, Pino Aprile in testa, non sono gli unici esternatori. Persino una vecchia gloria della storiografia come Giuseppe Galasso è riuscita ad esternare sul Corriere del Mezzogiorno, dove prima i revisionisti pascolavano quasi indisturbati.
Ma è pur sempre un tentativo tardivo: perché gli storici veri intervenissero si è dovuto aspettare che certi deliri pseudostorici infettassero parte del ceto politico, particolarmente privo di anticorpi culturali ed emergessero nel calendario istituzionale. Non solo: nell’indifferenza del mondo accademico, si è corso un altro grave rischio, relativo questa volta al Museo Lombroso di Torino. Infatti, se la Corte d’Appello di Catanzaro non avesse bocciato le pretese del Comune di Motta Santa Lucia e del Comitato “no Lombroso”, si sarebbe creato un precedente giurisprudenziale che avrebbe messo in serio pericolo buona parte dei musei italiani. Un pericolo scampato, occorre sottolineare più volte questo passaggio, grazie a un collegio di magistrati e nel silenzio del mondo accademico.
Cosa è successo finora? Semplice: i pochi studiosi e giornalisti che avevano fiutato i rischi di certe campagne culturali, nate sul web e approdate indisturbate nell’editoria, sono rimasti soli a difendere la cittadella della cultura. E non senza conseguenze fastidiose, tra cui il venire insultati in tutti i modi, molti irripetibili, sui social network.
Ancora oggi Pino Aprile continua a svelenare indisturbato, senza aver dato mostra di capire (e a questo punto c’è da pensare che il suo atteggiamento sia in malafede, più dettato dalla preoccupazione di difendere il proprio business editoriale che da altro) alcune cose fondamentali. Soprattutto che la produzione della storia e della cultura non sono fatti democratici, ma attività ad alta specializzazione per addetti ai lavori. Semmai, devono essere democratiche la fruizione e la diffusione di storia e cultura. Aprile non ha capito, inoltre, che il successo di pubblico non è indice di qualità e, semmai, molte volte è sintomo di scarsa qualità. Infine non ha capito che la fortuna di un libro non implica la validità di un filone culturale.
Ci auguriamo, a nome di chi ha condotto in solitudine certe battaglie, che il mondo accademico, a sua volta, capisca che l’élitarismo non vuol dire chiusura (e sarebbe ora che molti storici e studiosi imparassero a scrivere e comunicare come si deve), che il mondo non finisce alla portineria di qualche istituto e che certe battaglie vanno affrontate anche senza guardare al portafoglio, che per molti professionisti dello studio è considerevolmente magro.
Forse è tardi per invertire la tendenza e debellare del tutto il virus becero inoculato nel senso comune dai revisionisti antirisorgimentali. Non è tardi, però, per imparare la lezione e agire di conseguenza: oggi è toccato al Risorgimento, domani chissà.
Per saperne di più:
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