Mob Rules, quella nostalgia degli ’80 che si tinge di metal
Beast Reborn, il recente album della band tedesca rinverdisce i suoni che hanno appassionato generazioni di metallari
Il metal, verrebbe voglia di rispondere, con quasi trent’anni di ritardo, a Raf che si chiedeva, su note languide: «Cosa resterà di questi anni ’80?».
Meglio ancora, i metallari tedeschi come i Mob Rules, che hanno costruito un’intera carriera nel segno della nostalgia. A partire dal nome, che è un appassionato (e sfacciato) elogio al classico sabbathiano, per proseguire con la musica che, per convenzione chiamiamo power metal e richiama non poco i big del genere come gli Helloween prima maniera o i Gamma Ray, ma di fatto è ultraottantiana.
Il mondo cambia e cambiano anche i Mob Rules, dei quali è rimasto il solo frontman Klaus Dirks. Ma la musica no: è quella di sempre e forse più per coerenza che per mancanza di originalità.
Il nuovo Beast Reborn, uscito per la Svp e prodotto ottimamente da Jens Brogen (mago della consolle molto apprezzato nella scena metal che conta) conferma alla grande la capacità della band di riproporre in maniera appassionante i cliché che hanno consentito al metal classico di sopravvivere al riflusso degli anni ’90: tempi veloci ma non eccessivi, gusto per la melodia epica, a volte ai limiti del pacchiano ma mai sgradevole, ottimo riffing a due chitarre e costruzione armonica secondo i canoni ma mai banale.
La band si conferma in ottima forma nell’assetto a sestetto che dopo lo sdoganamento degli Iron Maiden è diventato di moda e presenta il nuovo chitarrista Sonke Janssen, che ha preso il posto dello storico Mathias Mineur. Il resto della formazione è quello che ha dato ottima prova di sé nel precedente Tales From Beyond: l’ottima sezione ritmica, costituita dal bassista Markus Brinkmann e dal batterista Nikokas Fritz, capace di appesantire il sound senza strafare ma con un grande respiro dinamico, il chitarrista Sven Ludke e il tastierista Jan Christian Halfbrodt, abilissimo nel dare spessore al sound senza alleggerirlo o, al contrario, renderlo troppo pomposo (i due rischi che di solito si corrono nel metal).
L’album è come da copione e da aspettative: la breve title track introduce con un efficace uso dell’elettronica in chiave orchestrale.
Si entra subito nel vivo col singolo apripista Ghost Of A Chance, un brano epico e veloce in cui la lezione degli Helloween convive con l’impostazione maideniana. Ottima la prestazione di Dirks, convincente sia nel refrain duro che nei cori in acuto.
In Shores Ahead, più cadenzata e piena di controtempi, emerge qualcosa dei Queensryche più metal.
Epica e carica di atmosfera, Sinister Light evoca i Judas Priest dell’era Painkiller (e d’altronde che power metal sarebbe se non si citassero i Priest?).
Traveller In Time, che parte lenta su una base inquietante delle tastiere e cresce con un andamento veloce, è un omaggio agli Iron Maiden della seconda metà degli anni ’80 (quelli veri, secondo i più).
I toni maideniani e l’impostazione epica emergono anche in Children’s Crusade, che si segnala per l’ottima performance dei due chitarristi e il gran tiro della sezione ritmica, che si districa nei tanti cambi di tempo e negli irrinunciabili stop and go.
War Of Currents, con i suoi otto minuti e rotti la canzone più lunga della raccolta, è un viaggio nelle sfaccettature stilistiche del metal di non trascurabile complessità. Da applauso la prestazione del frontman.
The Explorer è un pezzo solido in cui i teutonici dimostrano come per rinfrescare la tradizione del power non sia necessario inventare strane alchimie musicali o sconfinare nel prog.
Revenant Of The Sea è un altro brano lungo dal sapore epico e dai molteplici cambi di atmosfera, resi efficaci anche da un uso intelligente delle chitarre acustiche.
In Way Of Back Home alle atmosfere epiche si aggiungono le citazioni orientaleggianti. Davvero particolare l’attacco del brano con il basso in evidenza.
Chiude la malinconica My Sobriety Mind (For Those Who Left), una ballad in cui Dirks duetta con una voce femminile su una base di pianoforte e tastiere che si scatena in un gran finale da manuale con le chitarre soliste imbizzarrite in primo piano.
Fin qui gli inediti.
Ai fan la band ha destinato due bonus track: la cover di Sacred Heart, un classico minore di Ronnie James Dio, in cui il cantante riesce a fornire ancora un’ottima prova, e una versione di Lord Of Madness, già inclusa in alcuni singoli, riregistrata dalla nuova formazione.
Venticinque anni di carriera e non sentirli perché il contatto perenne coi classici forse impedisce di invecchiare. I Mob Rules sono una certezza non solo per il loro seguito, una nicchia consistente di fan del metal teutonico, ma per gli appassionati del rock duro.
Non tutti, infatti, hanno la vocazione a innovare e c’è chi, come l’ottima band sassone, preferisce perpetuare i canoni ammodernando il sound quel che basta per far capire che determinati stili possono resistere benissimo alle mode.
Da ascoltare, ma non solo per nostalgia.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Mob Rules
Da ascoltare (e da vedere):
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