Redemption, Joe Bonamassa ancora sugli spalti
Con il suo recentissimo tredicesimo album il chitarrista italoamericano si conferma una star di prima grandezza nel firmamento blues. Troppe incisioni? Ad ascoltarlo bene, si direbbe: non abbastanza
Con tre album sul mercato in meno di un anno, Joe Bonamassa può essere tranquillamente considerato un grafomane della chitarra.
E non finisce qui: sempre a proposito di numeri, si può dire che Redemption, uscito da pochissimo per la Mascot, è il tredicesimo album in studio e il primo di inediti rilasciato dal Nostro nel corso dell’anno solare (gli altri due sono Black Coffee, una raccolta di eccellenti cover eseguite in duo con la talentuosa e fascinosa Beth Hart, e British Blues Explosion, un album dal vivo costituito da reinterpretazioni dei classiconi britannici).
La prolificità al chitarrista italoamericano non manca. Semmai si tratta di capire se a tanta iperproduzione, prossima alla logorrea su pentagramma, corrisponda un livello artistico sostenuto. Non è una questione di creatività, che nei bluesman si dà per presupposta visto che il blues si interpreta e non si esegue, ma di valore compositivo.
In altre parole: può un artista impegnato a sfornare album su album riuscire a comporre canzoni di livello perlomeno accettabile?
Nel caso di Bonamassa la risposta è più che affermativa, perché il livello musicale è davvero alto, e Redemption lo ribadisce. Ma non si deve cercare la creatività o l’innovatività a tutti i costi nella sua musica, perché il bluesman statunitense è (e forse non vuol essere altro) un’interprete della grande tradizione black, appena contaminata col rock.
E Redemption ribadisce anche questa attitudine. Ovviamente, la ribadisce alla grande, grazie a una vena artistica che sembra inesauribile e grazie all’apporto di una factory di musicisti che definire affiatata è poco: il batterista Anton Fig, il bassista Michael Rhodes, il tastierista Reese Wynans, i fiatisti Lee Thornburg e Paulie Cerra, il cantante Gary Pinto, che armonizza le parti vocali, e le coriste Mahalia Barnes, Jade McRae e Juanita Tippins. A loro vanno aggiunte le due new entry, i chitarristi Kenny Greenberg e Doug Lancio.
Non basta, perché le performance di tanta band sono state riviste e corrette dal superproduttore Kevin Shirley e nell’album si sente inoltre l’apporto compositivo di alcuni giganti del rock internazionale come Dion DiMucci.
Il Nostro, insomma, ha voluto fare le cose in grande. E i risultati si sentono.
Evil Mama apre l’album con un attacco di batteria che cita sfacciatamente la zeppeliniana Rock ’n Roll. Ma è solo l’attacco, perché per il resto il brano si sviluppa su un tempo cadenzato carico di groove ai limiti del funky, su cui Bonamassa si sfoga alla grande, sia, ovviamente, con la chitarra, sia, ed è la vera sorpresa, nel cantato, in cui sfoggia doti più che notevoli.
Il rock ’n roll, citato e subito smentito nella open track, si fa largo nella successiva King Bee Shakedown, uno shuffle velocissimo e torrido, che ricorda a tratti l’ultimo Stevie Ray Vaughan.
Molly O’ è un rock cadenzato in cui si rifà sentire lo zampino degli Zeppelin, visto che l’andamento ricorda un po’ Kashmir.
Deep In The Blues è un r&b con tendenze soul nel refrain e punte gospel nel coro. La chitarra, invece, è puro Nashville.
Self Inflicted Wounds è un lentone carico di atmofera, un soul notturno dai toni torbidi che sfocia in un coro intenso e romantico e in un grandissimo assolo di chitarra.
Con Pick Up The Piece, Bonamassa porta l’ascoltatore nel suo ideale Cotton Club pieno di fumo, alcoolici di contrabbando e donnine discinte: il brano è uno slow blues dall’andamento rag che rifà il verso a Cab Calloway.
The Ghost Of Macron Jones è una personalissima escursione nel country, una Raw Hide del XXI secolo riveduta e modernizzata dai toni epici.
Just ’Cos You Can Don’t Mean You Should non è solo un gioco di parole, ma un blues lento e appassionato, che attacca come un classico dodici battute ma sfocia in un coro aperto che imprime al brano una direzione soul.
Con Redemption, la title track, il tuffo nel delta blues è assicurato. Ma solo nell’attacco, con una chitarra slide cattivissima. Il resto si dirige in direzione rock, con un’altra citazione di Kashmir.
I’ve Got Some Mind Over What Matters è un garbato omaggio al blues elettrico delle origini, quello che si suonava nei club malfamati di Chicago.
Stronger Now In Broken Places è una ballad quasi del tutto acustica (tranne per qualche tappetino appena accennato delle tastiere), in cui Bonamassa dimostra che per emozionare non gli serve stupire coi suoi consueti virtuosismi,
Love Is A Gambler è un dodici battute canonico pieno di stop and go, in cui riemerge la lezione di Muddy Waters e Buddy Guy. È il pezzo più convenzionale dell’album e forse non a caso è stato messo in chiusura con lo scopo di ricordarci che lo si può ammodernare quanto si vuole, ma sempre di blues si tratta.
Redemption conferma appieno quel che già sapevamo di Bonamassa: che è un artista notevole e un chitarrista fantastico, probabilmente il miglior bluesman bianco della nuova generazione, con la lodevole eccezione di Mike Zito.
Conferma inoltre che i canoni del blues sono duri a morire e difficili da alterare. Ma il Nostro usa al massimo le proprie risorse creative per evitare di incorrere nella trappola, in cui sono caduti dei grandissimi come il già citato Stevie Ray Vaughan e Johnny Winter, di ripetere sé stesso attraverso l’immutabilità del blues.
Non è poco e speriamo che continui così. Anche perché, se continua a sfornare album con questa lena, di sicuro lo risentiremo molto presto.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale di Joe Bonamassa
Da ascoltare (e da vedere):
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