Lucifer II, il ritorno della tenebrosa Johanna Sadonis
Un nuovo album nel segno del revival degli anni ’70 più torbidi dalla band della cantante berlinese, già frontgirl delle Oath
La critica, soprattutto quella dei siti amatoriali, ha accolto con un punta di tiepidezza Lucifer II, il secondo album dei Lucifer, il progetto della bionda Johanna Sadonis, ex cantante delle tenebrose Oath.
Certo, il passaggio da un’etichetta indipendente (la Rise Above di Lee Dorrian) a una major come la Century Media, ha sempre il suo peso. E senz’altro ha avuto peso il radicale cambio di formazione rispetto al predecessore, in cui la frontwoman berlinese era accompagnata dall’ex Cathedral Gaz Jennings alla chitarra, dal batterista Andrew Prestridge degli Angel Witch e dal bassista Dino Gollnik.
In Lucifer II la biondona si fa accompagnare da due comprimari di pari valore: Nicke Andersson degli Hellacopters, che siede alla batteria e occasionalmente impugna la chitarra, e il chitarrista Robik Tiderbrink, che si alterna tra il suo strumento e il basso.
L’accusa rivolta ai Lucifer è, manco a dirlo, di ammorbidimento, per aver abbandonato lo stoner doom ultrasabbathiano degli esordi in favore di un orientamento più genericamente settantiano, che strizza l’occhio al protometal, alla psichedelia e persino ai Rolling Stones.
L’obiezione è piuttosto facile: che male c’è a sperimentare, se il cambio di stile avviene sempre nell’ambito delle sonorità vintage?
Semmai si potrebbe dire che la Sadonis e i suoi compari hanno preferito l’antiquariato vero al modernariato finto e hanno perciò deciso di calarsi nello spirito e nelle sonorità degli anni ’70 in maniera filologicamente più credibile.
L’operazione è riuscita? Sì, o almeno in buona parte, perché l’album ha un gran tiro e una credibilità non indifferente.
E poi chi l’ha detto che i Lucifer hanno messo i Black Sabbath in soffitta?
Dipende da quali Sabbath. Forse quelli dei primi tre album, perché l’open track e singolo apripista California Son è pieno di riferimenti a Sabbath Bloody Sabbath e Sabotage più qualcosina dei Blue Oyster Cult: riff e ritmica tirati, su cui spicca la voce melodica e cristallina della crucca, melodia ariosa quel che basta e assolo stile anni ’70, tutto scala pentatonica, con un bel wha wha e il fuzzbox a palla.
Notevole anche Dreamer, una ballad (di cui i Lucifer hanno rilasciato anche una versione unplugged) che parte su un arpeggio acustico ben armonizzato dal basso e cresce su un riff doom per poi ritornare all’acustico. E meno male che ai Sabbath, di cui qui si riesce a rintracciare qualche altro segno (avete presenti The Writ e Planet Caravan?) la Sadonis avrebbe detto ciao.
I Blue Oyster Cult fanno capolino direttamente in Phoenix, sempre settantiana, ma in maniera più americana, grazie al refrain più mainstream e al coro ruffiano.
Dancing With Mister D. è la cover del classico dei Rolling Stones (tratto da Goats Head Soup del’73), appesantita nei suoni e resa allo stesso tempo più eterea dall’interpretazione della valchiria.
Reaper On Your Heels è un altro pezzo che non avrebbe sfigurato nel repertorio dei Sabbath di metà dei ’70, grazie a un bel riff pastoso degno dello Iommi più sulfureo e a un’interpretazione che ricorda non poco Ozzy e al drumming che parafrasa alla perfezione quello del vecchio Bill Ward.
Eyes On The Sky si segnala per il contrasto tra il cantato melodico e dolce, che arranca forse un po’ nel bridge e il riff doom che reintroduce qualche elemento di stoner. Ottima la parte accelerata a metà brano in cui i Lucifer citano gli Hawkwind in maniera sfacciata.
Before The Sun attacca con un riff in controtempo ma si sviluppa con un andamento lento da ballad con un crescendo tenebroso.
Aton cita il dark metal dei Black Widow, persino in maniera più tenebrosa, ma senza rinunciare alla melodia, che esplode nel coro.
Faux Pharaoh chiude l’album nel segno dello stoner con una girandola di citazioni sabbathiane, dal riff cupo e rallentato ai cambi di tempo per culminare nel cantato, che rende di nuovo in maniera più aggraziata le interpretazioni dell’Ozzy degli anni d’oro.
Molto vario e gradevole, Lucifer II ha spiazzato gli ascoltatori, in larga misura metallari, che si aspettavano un bis dell’esordio o una riedizione delle Oath.
Semmai, a volerne trovare uno, il punto debole dell’operazione è il citazionismo spinto, persino nei suoni, che soffoca ogni tentativo di originalità, che evidentemente non è (e ciò vale anche per l’ottimo e sopravvalutato Lucifer I) nelle corde della Sadonis e dei suoni compari, vecchi e nuovi.
Ma neanche questo è quel gran male se si ascolta Lucifer II con la consapevolezza di essere alle prese solo con un riuscito revival. Per l’originalità e l’inventiva, occorre bussare altrove. I Lucifer hanno dimostrato di poterne fare a meno perché, anche così, emozionano lo stesso.
Da ascoltare (e da vedere):
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