Un addio a Romero, il rivoluzionario della paura
Scompare il cineasta che cambiò il modo di concepire l’horror nel cinema del XX secolo
Con George Romero, americano e canadese dalle ascendenze ispaniche e italiane, se n’è andato un altro pezzo, non secondario, dell’immaginario collettivo del XX secolo.
Al solito, i media nel commemorarlo hanno dato fondo al solito bauletto dei luoghi comuni, costruito in dieci minuti grazie alla consueta ricerca su Google: il papà degli zombie, il re dell’horror, il regista dei “morti viventi”, e via titolando, di banalità in banalità.
Romero, in realtà, non ha avuto nessuno di questi primati: quando girò La notte dei morti viventi (1968), il cinema, in particolare quello americano, conosceva gli zombi da un bel pezzo, grazie all’opera pionieristica di Jacques Tourneur. Anche per il sangue, c’era poco da inventare: prima della metà dei ’60, avevano già provveduto in tanti – ai piani alti Alfred Hitchcock con Psyco (1960), a quelli bassi Herschell Gordon Lewis – a inondare gli schermi di ettolitri di emoglobina finta.
Più propriamente, Romero è il padre di quello che i critici hanno battezzato new horror: a partire da La notte…, infatti, il cinema di paura si è emancipato dalla dimensione di puro intrattenimento, anche colto (come nel caso delle produzioni gotiche britanniche e italiane, zeppe di citazioni letterarie) per formulare metafore inquietanti sul presente e, forse, sul futuro. Che prendono corpo nei film successivi, dove il Nostro ha passato in rassegna temi uno più inquietante dell’altro: le devastazioni dell’ambiente a opera dell’uomo e, in particolare, degli ambienti militari in La città verrà distrutta all’alba (1973), le deviazioni sessuali a sfondo necrofilo provocate dal consumismo in Martin (1977) e, infine, la critica della società dei consumi e della massificazione in quello che gli addetti ai lavori considerano il suo vero capolavoro, che è The Dawn of the Dead (1978), uscito in Europa in una versione più suggestiva rimanipolata da Dario Argento e rimusicata dai Goblin col titolo, appunto, di Zombi.
Romero non inventò i morti viventi, s’è già detto. Ma li trasformò in un’icona che ancora colpisce: gli zombi sono emaciati, a volte grigiastri e non del tutto devastati dalla decomposizione, come invece li hanno raffigurati gli epigoni del cinema romeriano. Mantengono, nelle loro fattezze, quel minimo di integrità che, nonostante tutto, ricorda che quei morti sono stati esseri umani. La resurrezione in peggio come metafora: tutti, morendo dalla dimensione autentica dell’umanità, diventeremo zombi. Cioè mostri mossi dai desideri base (la fame innanzitutto) e costretti a comportamenti compulsivi e ripetitivi, in una parola autistici. E questa resurrezione, in realtà, diventa una autofagia: gli zombi che sbranano i vivi rappresentano l’umanità disidentificata che distrugge sé stessa.
Sociologia a buon mercato? Può darsi. Ma allora, negli anni ’70, queste cose le prendevano parecchio sul serio.
È difficile dire se Romero, piuttosto discontinuo (ma mai al disotto di un’eccellente professionalità), sia stato quel gran genio oppure, più semplicemente, un uomo dalle belle intuizioni e dotato del coraggio necessario per realizzarle. Certo è che chi ne ha calcato le orme non è stato in grado di proporre le stesse tematiche con tanta, lucida aggressività. O, magari, non le ha proposte affatto e si è limitato al fattore (anti)estetico, tutto liquami e putredine.
Per cancellare il celebre regista è bastato un banale tumore ai polmoni. Ma non preoccupiamoci: lui, almeno, non tornerà, pallido, caracollante e puzzolente e desideroso di sbranarci perché il suo cinema non è morto. Anzi, rivivrà di replica in replica. Gli zombi sono gli emuli rimasti, che cannibalizzano i peggiori cliché in un contesto di totale mancanza di idee e di coraggio che non penalizza solo l’horror. Sotto la patina elettronica di molto cinema postmoderno, c’è più puzza di morto che in certe vecchie pellicole a 36 millimetri.
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