Rainier Fog, gli Alice In Chains entusiasmano ancora
Il nuovo album della band di Seattle propone undici, efficacissimi brani a cavallo tra il grunge e il metal. I tempi cambiano ma Jerry Cantrell e soci si sanno adeguare: ammodernano il sound senza perdere in coerenza
Il Monte Rainier è un vulcano che sovrasta Seattle, una città che non ha mai smesso di eruttare rock di prima grandezza.
Miglior omaggio, all’enorme massiccio (4.400 metri) e alla loro città, gli Alice In Chains non potevano farlo: Rainiers Fog, uscito da pochissimo per la Cbs (a proposito di colossi…) è il ritorno più che gradito della band più preparata e tecnicamente valida della scena grunge, per la quale Seattle passerà alla storia della musica, a dispetto del fatto che la città dello Stato di Washington abbia dato i natali a Jimi Hendrix e, grazie al superbo exploit dei Queensryche, sia stata seminale anche per il prog metal.
Purtroppo non si può ascoltare un album degli Alice In Chains senza fare un duplice paragone col passato. Innanzitutto, coi primi tre album, di cui fu mattatore il compianto Layne Staley. Eppoi con gli altri due album del nuovo millennio, in cui il ruolo di Staley è stato rilevato, con onestà e bravura, dall’ottimo William DuWall, che non avrà il carisma del suo predecessore ma, per fortuna sua, neppure le propensioni alla depressione e agli accessi, tipiche delle grunge star.
Ma non è il caso di insistere in sguardi retrospettivi (e francamente poco belli): lasciamoci andare, piuttosto, all’ascolto di questi dieci brani nuovi di zecca in cui Jerry Cantrell e soci riescono a tener alta la bandiera riproponendo in versione aggiornata e con suoni moderni la ricetta che li ha proiettati nell’empireo del rock.
L’update riesce benissimo in The One You Know, primo singolo e opener track, che parte con un accordo secco e pesantissimo da cui si dipana un riff volutamente sgangherato. Ottima l’armonizzazione tra le voci di DuWall e di Cantrell, altro marchio della band. Notevoli anche i cambi di atmosfera sui tempi cadenzati del duo ritmico composto dal bassista Mike Inez e dal batterista Sean Kinney.
In Rainier Fog esplode l’anima più hard degli Alice con un riff tosto e sporco e dilatazioni nei cori che non avrebbero sfigurato nel repertorio dei Jane’s Addiction, gli omologhi psichedelici degli Alice nella scena metal.
Suoni duri e riff al limite dello stoner in Red Giant, che tuttavia cambia imbocca dei sorprendenti cambi di atmosfera nei bridge e nei cori, giusto per ricordare che non basta qualche strizzatina d’occhio al metal per smettere di essere grunge.
Secondo gli addetti ai lavori, la ballad elettroacustica Fly sarebbe il punto debole del disco. È vero? Sì e no: di sicuro è meno massiccia della terna che apre l’album e ha un suono decisamente radiofonico. Il che non è un male, tanto più che il resto (l’uso delle due voci e le armonizzazioni psichedeliche) restano negli standard della band.
Più che un cedimento, è un calo di tensione non inopportuno in un album molto tirato come questo.
A proposito di durezza e alta tensione, Drone conferma l’attitudine complessiva di Rainer Fog: tempo cadenzato, ai limiti del doom, e riff che strizza di nuovo l’occhio allo stoner, più cantato in stile ann i’70. Notevole il cambio di atmosfera a metà brano: il cantato diventa più melodico e lancia l’assolo iperacido di Cantrell.
Def Ears Blind Eyes è un’immersione totale nella psichedelia carica di suoni malati (le distorsioni liquide della chitarra) e completamente cantata a due voci.
Più solare, Maybe è invece piena di armonie ariose, a partire dal coro che apre il brano e lambisce le atmosfere della East Coast.
So Far Under è il brano più vicino al metal della raccolta: ancora riff stoner e atmosfere doom dagli echi sabbathiani. A completare tutto, l’assolo di Cantrell che aggiunge un ulteriore tocco acido a una canzone pesantissima e cupa.
Più spedita e grintosa, Never Fade innesta i consueti riff cattivi su un groove dinamico arricchito da un coro melodico tipicamente americano.
Chiudono le atmosfere sognanti di All I Am, una ballad delicata e, nei limiti in cui l’aggettivo lega con la musica degli Alice, eterea.
Forse è il modo in cui il quartetto di Seattle cerca di esorcizzare gli incubi e le tragedie del passato per rendere il presente più solido e guardare al futuro.
Sei album in trent’anni di carriera non sono tanti, specie se si considera che agli Alice In Chains ne sono bastati due per entrare nel club dei grandi.
Rainer Fog, giudicato da molti frettolosamente, magari sotto il pungolo del paragone col passato che invece abbiamo voluto evitare, è una prova di vitalità di livello non indifferente.
A differenza dei Nirvana, finiti con la morte del leader, gli Alice hanno preferito la vita alla leggenda. E quest’ultimo, godibilissimo album ribadisce che hanno fatto bene. Per loro stessi e per il loro pubblico. E ciò basta e avanza.
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale degli Alice In Chains
Da ascoltare (e da vedere):
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