A Roma la mafia c’è
La sentenza d’Appello applica a Buzzi e Carminati l’aggravante mafiosa esclusa in Primo Grado.
Un cambio di marcia nella lettura dei fenomeni criminali legati agli ex membri della banda della Magliana, come appunto Carminati? Dipende dalla Cassazione.
I minori anni di pena non devono trarre in inganno: col 416bis non c’è da scherzare e forse ora qualche insospettabile trema
I garantisti a oltranza dormano tranquilli: a Roma la mafia c’è. Salvo che la Cassazione, ultima carta in mano alla difesa di Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e degli altri coimputati di Mafia Capitale, decida altrimenti.
A occhio, la vediamo difficile. A meno che non vogliano contraddire sé stessi, non c’è da credere che gli ermellini smentiranno ciò che la stessa Suprema Corta ha stabilito a più riprese, dal 2014 in avanti: cioè che si può parlare di mafia anche per associazioni composte da non meridionali o addirittura da stranieri.
Già: la mafia, come tutti i reati, non è uno status ma un modo d’agire, un comportamento per cui va colpito chiunque lo attui. Questo, almeno, secondo diritto, altrimenti avremmo a che fare con un reato razzista che neanche Alfredo Niceforo – l’unico autore “antimeridionale” e “razzista” della scuola lombrosiana – sarebbe stato in grado di escogitare.
No, e la Corte d’Appello di Roma lo ha stabilito a chiare lettere, per essere mafiosi non serve parlare napoletano o casertano, né praticare affiliazioni con le rigidità formali di Cosa Nostra, né coi criteri endogamici della ’ndrangheta: basta avere certi legami e farli funzionare in un certo modo. Che poi è quel che faceva la banda della Magliana, sebbene nessuna sentenza definitiva l’abbia mai certificato. Ed è quello che, secondo l’Appello di Roma, avrebbero fatto Buzzi e Carminati, nei cui confronti il condizionale resta d’obbligo fino a decisione definitiva.
A proposito di formalità mafiose, viene in mente un bel passaggio di Romanzo Criminale, il bel noir, ormai classico, del giudice scrittore Giancarlo De Cataldo, in cui Libano (l’incarnazione letteraria di Franco Giuseppucci detto “Er Negro”) diceva di non aver voluto riti e formalità proprio per evitare di attirare l’attenzione degli inquirenti. Una preoccupazione eccessiva, la sua, visto che negli anni d’oro della banda della Magliana l’articolo 416bis ancora non esisteva? Forse no, perché c’è voluto l’11 settembre del 2018, a quasi quarant’anni dall’epoca in cui è ambientato il romanzo di De Cataldo, perché una Corte romana iniziasse a riconoscere l’agire mafioso agli ex membri della banda, come Carminati.
Non che prima non fosse capitato, ci mancherebbe, ma queste accuse seguivano una dinamica diversa: formulate quasi sempre in Primo Grado, venivano smantellate dopo.
Stavolta è capitato il contrario e possiamo cominciare a dire che a Roma la mafia c’è.
Non ci riferiamo, si badi, alla mafia – siciliana, campana e calabrese – che ha scorazzato in lungo e in largo nella Capitale e la cui esistenza è stata provata in sovrabbondanza, dalle cronache prima e dalle carte bollate poi.
No, stavolta inizia ad essere messo nero su bianco in maniera più convincente che in passato un fatto banale, di cui finora sembravano essersi accorti tutti, tranne chi doveva davvero: anche la criminalità romana, a cui a pieno titolo appartengono Buzzi e Carminati, riesce ad agire con modalità mafiose. E non deve trarre in inganno l’apparente minor pesantezza delle pene: 20 anni anziché 25 a Buzzi e 14 anziché 20 a Carminati. Questa è dovuta a principi giuridici e costituzionali secondo cui si applica la legge che contiene le pene meno pesanti.
Ciò che cambia non è la quantità della pena, ma la sua qualità: se la decisione dell’Appello venisse confermata, l’ex Nar e l’ex estremista rosso e omicida sconterebbero tutto o quasi in massima sicurezza, con poche prospettive di premialità varie e perciò i quattordici anni di Carminati sarebbero più sicuri dei venti datigli in primo grado.
Un cambio di tendenza? Se confermato, ripetiamo, sì: quando un reato è qualificato dall’aggravante mafiosa cambia tutto ciò che lo circonda e, per fare un esempio, la semplice corruzione può diventare concorso esterno. A questo punto, difficilmente chi ha coltivato l’amicizia dei due potrebbe reputarsi al riparo da altre, più invasive inchieste. E le dichiarazioni dei pentiti storici della banda della Magliana, cioè Abbatino (che ha confermato quel che ha dichiarato per anni in recente libro intervista, scritto da Raffaella Fanelli) e Mancini, assumerebbero in via ufficiale e sulle carte giudiziarie lo stesso significato che ora viaggia tra le allusioni e i si dice immortalati dai media: finora non si è parlato di mafia romana, anzi de’ Roma, forse per proteggere quel notabilato, politico e non solo, che coi ragazzi di malavita ha fatto affari a tutti i livelli: professionale, elettorale, finanziario, amministrativo e persino giudiziario.
Finalmente, chi di dovere forse inizia a capire che Roma probabilmente è mafiosa come Napoli, Reggio Calabria e Palermo. O meglio, che la stragrande maggioranza dei romani per bene e onesti ha subito direttamente o indirettamente, il peso di una piovra autoctona come è capitato ai napoletani, ai reggini e ai palermitani. E iniziare a chiarire questi fatti con decisione (e con la speranza che diventino verità) giudiziarie non significa sfregiare l’immagine di Roma, come qualcuno, con eccessiva foga garantista ha affermato. Significa, più semplicemente, aprire gli occhi e iniziare a riscrivere nei più minuti retroscena le pagine della brutta storia che ha gettato la Capitale nel suo attuale degrado, per spiegare il quale le abituali categorie della corruzione e dell’inefficienza sono palesemente insufficienti.
Forse si volta pagina. E forse chi di dovere ha capito che i beneficiari principali del garantismo devono essere, i cittadini e non solo quella minoranza che può permettersi parcelle al minimo a cinque cifre. Tutto il resto, per dirla con Franco Califano (artista notoriamente apprezzato dalla banda della Magliana…) è noia.
Saverio Paletta
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