La Scuola al tempo dei Borbone
L’analfabetismo era una piaga, ma non nella misura eccessiva tramandata dalla storiografia ufficiale. La scuola pubblica faceva acqua da tutte le parti, ma solo perché il governo investiva poco per motivi fiscali e non per tenere il popolo nell’ignoranza. In compenso, c’era la pratica diffusa dei precettori privati. Un censimento vero degli analfabeti è quasi impossibile perché i documenti del 1861 sono dispersi
Gli esponenti del revisionismo sudista e neoborbonico sono soliti lanciare i loro roboanti strali contro una presunta cultura ufficiale che, dal 1860 in poi, avrebbe occultato dolosamente la verità sul Regno delle Due Sicilie.
Eppure, sin dal 1927 un intellettuale proveniente dai ranghi dell’università come Alfredo Zazo aveva smentito pubblicamente la tesi – politica assai più che storiografica – secondo cui i Borbone avrebbero deliberatamente tenuto i loro sudditi nell’ignoranza. La sua fondamentale monografia L’istruzione pubblica e privata nel napoletano (1767-1860) fornisce, infatti, un quadro dell’istruzione preunitaria assai completo ed equilibrato.
Nelle pagine conclusive del libro, l’autore riporta il duro giudizio di Giuseppe De Luca circa le scuole del periodo borbonico, contenuto in una relazione del 21 ottobre 1863 indirizzata al corpo accademico. Zazo commenta: «Che questo giudizio si debba riferire alle scuole del decennio o del dodicennio che precedette il 1860 non v’è dubbio e sulla sua esattezza avremmo ben poco da obiettare, ma non così se attribuito all’intero periodo che seguì la Restaurazione, o peggio, a tutta l’opera compiuta dai Borboni nel campo dell’istruzione pubblica. Questa superficiale o incompleta valutazione godette e gode ancora – come è noto – grande favore e contribuì non poco a formare la comune opinione che i Borboni avessero imbarbarito il popolo delle Due Sicilie, più che il proprio, ogni altro governo della penisola».
L’affermazione di Zazo parrebbe confutata dai risultati del primo censimento del Regno d’Italia, realizzato nel 1861, che attribuisce al Mezzogiorno una percentuale di analfabeti toccante quasi il 90%.
Chi scrive intraprese più di cinque anni or sono un’indagine su tali rilevamenti, che vennero severamente criticati già dai contemporanei. In particolare, il sottoscritto compulsò gli atti delle adunanze parlamentari del neonato Regno d’Italia, disponibili su Google Books. Alcuni deputati, come il potentino Ascanio Branca e il friulano Gabriele Luigi Pecile, espressero pesanti riserve sulle modalità del primo censimento, arrivando a dichiarare che nel novero degli analfabeti erano stati inclusi addirittura i lattanti, e che nel Mezzogiorno le schede per le dichiarazioni, da distribuirsi alle famiglie, venivano in realtà compilate dai segretari comunali senza essere consegnate ai destinatari.
A ciò si deve aggiungere che una verifica sistematica sui documenti originali – ovvero sulle suddette schede – è impossibile, perché le carte della Direzione generale di statistica, l’istituzione che si occupava del censimento, sono andate perdute.
Questi e altri risultati dell’indagine vennero a suo tempo comunicati dal sottoscritto a Pino Aprile, perché li inserisse in Carnefici. Aprile, infatti, li utilizzò; ma si guardò bene dal nominare chi glieli aveva trasmessi. Di recente, poi, il bombastico presidente dei cosiddetti Neoborbonici, Gennaro De Crescenzo, ha dedicato a chi scrive – sempre senza citarlo, naturalmente – uno dei suoi prodigiosi copia e incolla.
Ma ciò che conta è riflettere sulla discrepanza fra quanto sembra emergere dalle fonti e l’altissima percentuale degli analfabeti del Regno delle Due Sicilie. Poco rileva, in tal senso, l’elenco delle scuole pubbliche riportato nelle pubblicazioni ufficiali dell’epoca. Anche in questo caso l’ineffabile De Crescenzo si è fiondato sui risultati delle ricerche di una valente studiosa, Anna Gargano, copiandoli, incollandoli, fraintendendoli, e infine gigioneggiando in veste di autonominato campione della Vera Storia.
Varrà la pena riportare per l’ennesima volta quanto ebbe a scrivere nel 1855, in un rapporto ufficiale, il consultore di Stato Emilio Capomazza, ultimo presidente del Consiglio generale della pubblica istruzione del Regno delle Due Sicilie, a proposito dell’istruzione pubblica nell’ultimo decennio preunitario. Siamo pronti a scommettere che nessun sudista o neoborbonico si produrrà nel consueto sforzo di copy and paste.
«Da per ogni dove e forse esclusa la sola capitale, mancanza di oggetti scolastici: non un libro, non un foglio di carta, non un lapis, non un quadretto si dà agli alunni che quasi tutti sono sforniti di mezzi per provvedersene. Non poche scuole, poi, mancano fino degli scanni e delle tabelle per l’insegnamento del leggere e dello scrivere secondo il metodo normale. Che si direbbe poi se si sapesse che moltissimi maestri sono rimunerati peggio di una fantesca, ricevendo soldi meschinissimi che in taluni luoghi non oltrepassano i ducati dieci, o dodici all’anno? E se a tutto ciò si aggiungesse che il soldo del maestro e della maestra è per il primo ad invertirsi ad altro uso, ad ogni più lieve bisogno del Comune, anteponendosi il bene materiale al morale, chi non vedrebbe essere ben altra che la poca vigilanza o il niuno incoraggiamento, la ragione vera dello scarso frutto delle scuole primarie? E tutto questo senza tener conto delle intrusioni da parte dei maestri e talvolta dei sindaci, di sostituti abusivi per lo meno ignoranti e mai sempre non curanti dell’insegnamento. Spesso ancora ho rilevato che alcuni si procurino la nomina a maestri e non per insegnare essi direttamente ai fanciulli, ma per costituirsi un beneficio personale, ed incaricare altri per l’insegnamento, o con dividerne il soldo, o con darne una piccola frazione al maestro sostituto. In tal modo la scuola si tiene spesso da persone le più abiette e le meno capaci. In altri Comuni, poi, non esclusa la Capitale, i maestri municipali disimpegnano il loro ufficio con raro abbandono ed i genitori amano meglio mandare i loro figli ai maestri privati pagandone una mensile mercede, piuttosto che mandarli alle scuole pubbliche che sono gratuite e da tal ragione ne deriva la quantità immensa delle scuole private».
Le chiare e oneste parole di Capomazza lasciano intravedere i termini di una questione storiografica che è stata sistematicamente affrontata solo in tempi recenti. Gli studi della citata Anna Gargano hanno dimostrato con evidenza scientifica quanto fosse varia e diffusa nelle Due Sicilie la rete dell’insegnamento privato, al punto da surclassare quella della scuola pubblica per quantità e qualità. Maurizio Lupo, uno storico afferente al Consiglio Nazionale delle Ricerche, formulò alcuni anni fa, in occasione di un convegno dedicato appunto alla storia della scuola, una valutazione complessiva sull’istruzione preunitaria che ci sembra particolarmente acuta e veritiera. Secondo Lupo, nel Regno meridionale quella che oggi si definirebbe «offerta formativa», nel settore pubblico, era sicuramente inferiore alla domanda. Ciò non era dovuto a una deliberata volontà, da parte dei Borbone, di mantenere i ceti popolari nell’ignoranza, ma semplicemente all’eterna e costante preoccupazione della dinastia regnante di tenere a bada la pressione fiscale. Questo, però si tradusse in una limitata capacità di spesa pubblica e, conseguentemente, nel contenimento degli investimenti da parte dello Stato, anche in ambito scolastico. Perciò, concludeva lo studioso del Cnr, i Borbone lasciarono di fatto prosperare l’insegnamento privato, che risolveva il problema dell’esigenza di scolarizzazione senza aggravio per le casse statali. Al tempo stesso, però essi tennero così aperto uno spiraglio decisivo per la diffusione di un pensiero contrario all’ideologia di cui erano portatori: sicché finirono per trovarsi contro la gioventù uscita da quelle scuole, sulle barricate del 1848 e poi nella crisi finale del 1860-1861.
Come che stiano le cose, ve n’è abbastanza per nutrire qualche ragionevole dubbio sulle conclusioni del censimento del 1861. D’altronde, perfino un autore insospettabile di simpatie revisioniste come lo storico Alessandro Barbero, nel suo I prigionieri dei Savoia, dedicato alla “congiura di Fenestrelle”, nota non senza sorpresa che l’esercito napoletano, lungi dall’essere una truppa formata esclusivamente da contadini illetterati, conteneva fra i suoi ranghi una folta rappresentanza di piccoli e piccolissimi borghesi che avevano una qualche dimestichezza con la scrittura.
Insomma, è lecito auspicare un proseguimento su vasta scala delle ricerche, per giungere a risultati ragionevolmente credibili sulla questione dell’alfabetizzazione nelle Due Sicilie. Occorre anche tener presente che si tratta di un settore assai delicato, in cui i criteri di attendibilità sono labili e difficili. Non c’è trippa, dunque, per giornalisti prestati alla storia dal gossip, né tantomeno per presidenti nazionali di movimenti identitari condominiali.
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