Lo 007 di Moro amato dagli arabi
Quando l’intelligence era diplomazia. La vita spericolata del colonnello Giovannone in un libro di Francesco Grignetti
Lo hanno definito il Lawrence d’Arabia italiano. Lo chiamò così la giornalista Graziella di Palo, prima di finire inghiottita dalla guerra civile libanese. Ma lo ha chiamato così, con un’intenzione del tutto opposta anche Francesco Grignetti, che a Stefano Giovannone ha dedicato nel 2012 una bella biografia, La spia di Moro, pubblicata in e book da e-letta e rilanciata lo scorso anno dallo stesso editore.
Grignetti, pluripremiata firma de La Stampa, e autore di varie inchieste, è uno che di servizi segreti ne capisce, come prova Professione spia (Marsilio, Padova 2012) l’altra, importante biografia dedicata a Giorgio Conforto, l’italiano al servizio del Kgb.
Da una giornalista a un altro. Chi dei due ha detto la verità su Giovannone? La di Palo, che ne adombrò responsabilità nel presunto traffico di armi che si svolgeva a Beirut, nella terribile seconda metà degli anni ’70? O Grignetti, che ha tracciato un ritratto molto positivo su questo 007 senza tuttavia cadere nella trappola dell’agiografia?
Sarebbe troppo banale rispondere che la verità sta nel mezzo. Perché, su personaggi come Giovannone la verità non può essere una sola e, soprattutto, non vi si può accedere con una sola chiave o attraverso un solo piano di lettura.
E poi una terza domanda, solo in apparenza sciocca: a cosa è dovuta la riscoperta di questo agente segreto, morto di tumore il 17 luglio 1985 mentre si trovava agli arresti domiciliari a causa delle indagini istruite su di lui da ben tre magistrati?
Con tutta probabilità, sono state determinanti le rivelazioni della Commissione Moro. O meglio, ciò che hanno fatto trapelare alcuni commissari come Carlo Giovanardi e Miguel Gotor, i quali hanno chiesto la rimozione del segreto di Stato dai dossier dello scomparso agente segreto.
Forse la rivelazione di questi misteri, che coprono un periodo lungo e delicato, che va dai primi anni ’70 alla morte del loro depositario e toccano episodi cruciali della storia repubblicana (l’omicidio di Aldo Moro, la tragedia di Ustica e la strage di Bologna) potrebbe gettare una nuova luce sulle vicende più controverse della politica italiana. E, magari, potrebbe consentire una lettura più coerente di fatti su cui si sono esercitati un po’ tutti, dai magistrati che li hanno indagati ai dietrologi che li hanno commentati.
La spia di Moro è un libro semplice ma non facile, perché Grignetti racconta, in maniera diretta e sulla base di testimonianze importanti – dei giornalisti che lo conoscevano, come Igor Man, dei familiari, dei colleghi e dei collaboratori e degli inquirenti che si sono occupati di lui – la vita segreta di Giovannone con toni che tradiscono un’ammirazione palese verso questo servitore dello Stato, ma poi riesce a prenderne le distanze e a illustrarne anche le zone d’ombra, soprattutto il comportamento ambiguo tenuto durante l’inchiesta sulla scomparsa della di Palo e di Italo Toni.
Ma partiamo dall’origine, cioè dalla definizione di Lawrence d’Arabia italiano. Mai espressione fu più vuota: ambiguo e sregolato, il celebre ufficiale britannico ha diviso i posteri. Icona dell’irredentismo arabo contro gli ottomani per gli ammiratori, sir Lawrence è stato considerato anche un agente del colonialismo albionico dalla propaganda fascista e non solo. Nulla di più lontano da Giovannone, che semmai agì in Oriente in maniera difensiva e tessé trame delicatissime per orientare equilibri precari e non per rompere gli equilibri. Ma anche a livello umano la distanza tra i due non potrebbe essere più grande: al contrario dell’ufficiale inglese, il carabiniere italiano ebbe una vita piuttosto regolare, nei limiti del suo mestiere: fu il classico padre di famiglia, che, appena poteva, rientrava a Roma per stare con la famiglia.
Inoltre, Giovannone non aveva le phisyque du role che un certo immaginario attribuisce agli agenti segreti: piccolo e corpulento, il viso anonimo, in cui il dettaglio più vistoso erano gli occhiali spessi, che tradivano gravi problemi agli occhi.
Ma dietro l’apparenza insignificante, si celava una gran sostanza: la capacità di trattare da pari a pari coi colleghi del Mossad e con i big dell’Olp.
Fiorentino, classe ’20, Giovannone si fece notare durante la Seconda Guerra Mondiale quando, con un singolare blitz, liberò suo padre, ingegnere militare e progettista delle fortificazioni sotterranee di Fiume, finito in mano degli jugoslavi. Poi passò ai carabinieri col grado di tenente e, dopo un breve periodo a Foggia, fu mandato a Mogadiscio, nell’allora Somalia italiana, dove fu reclutato nell’intelligence.
Lì fece quel formidabile tirocinio che lo avrebbe trasformato nel formidabile camaleonte capace di farsi ammirare dagli israeliani e amare dagli arabi. E lì prese la più grossa stecca della sua carriera quando, nel 1969, non riuscì a prevedere l’ascesa al potere di Siad Barre, un golpe simile a quello coevo di Gheddafi in Libia, che la retorica antioccidentale, molto diffusa tra gli intellettuali dell’epoca, spacciò per una rivoluzione. Fu il suo unico scivolone. O, almeno, fu quello più vistoso.
Nel 1972 fu inviato in Libano, dove sarebbe rimasto fino ai primi anni ’80. A Beirut – prima ricchissima e lussuriosa capitale, poi teatro di una ferocissima guerra civile – Giovannone divenne l’interprete e il realizzatore della diplomazia parallela ispirata dalla politica estera di Aldo Moro, il suo padrino politico. Nella metropoli mediorientale, l’apparentemente dimesso colonnello dei carabinieri si sovrapponeva spesso e volentieri al lavoro ufficiale del corpo diplomatico, grazie un mandato che gli conferiva la più ampia discrezionalità e lo poneva al diretto comando del generale Vito Miceli, il capo del Sid. Fu una presenza ingombrante? Certo. Ma indispensabile, considerata la linea politica di Moro, che nel 1972 era approdato al ministero degli Esteri. Ed efficace, visto che fu proprio grazie al lavorio discreto di Giovannone che l’Italia riuscì a cavarsi da impicci serissimi.
Il 14 gennaio 1973 gli uomini del Sid arrestano a Ostia un commando di cinque terroristi palestinesi, che si preparavano ad abbattere l’areo che trasportava Golda Meir, la premier israeliana attesa a Roma dal Papa.
Dell’arresto, effettuato grazie all’apporto del Mossad, gli italiani avrebbero conosciuto una versione annacquata alcuni mesi dopo, quando i cinque arrestati erano stati interrogati in un carcere segreto dagli 007 italiani e israeliani. I cinque, consegnati alle autorità giudiziarie, furono scarcerati in attesa di processo e fatti evadere. Era un effetto del cosiddetto Lodo Moro (che Grignetti definisce, in maniera più riduttiva, accordo). Questo trattato della diplomazia parallela tra l’Italia e l’Olp mirava a mettere al sicuro il nostro Paese dalle attività terroristiche di Al Fatah in cambio del riconoscimento politico dell’Olp. L’Italia pagò un prezzo carissimo: il Mossad, per rappresaglia, abbatté l’aereo militare Argo 16. Ma la reazione israelina non cambiò di una virgola la linea italiana. Anzi: il Lodo Moro, grazie anche alla mediazione di Giovannone che triangolò in maniera magistrale con la Libia, fu esteso, dopo il grave attentato all’aeroporto di Fiumicino, a Settembre Nero, l’organizzazione guidata da George Habbash, il rivale di Yasser Arafat. L’ardita spregiudicata versione italiana del grande gioco fu gestita alla grande da Giovannone, diventato un uomo della provvidenza, grazie anche alla protezione dello scomparso statista democristiano, che invocò l’aiuto del colonnello nelle lettere scritte dal covo brigatista di via Gradoli. Il colonnello provò a darsi da fare attraverso Arafat, considerati i rapporti tra l’Olp e i vari gruppi terroristici europei di ispirazione marxista, in prima fila le Br. Il tentativo fu inutile e, per Giovannone esposto (da Moro) ed espostosi, dannoso.
Il declino del colonnello, infatti, iniziò con la scomparsa dello statista, suo padrino politico. Il Sid, travolto dagli scandali, divenne Sismi e lo 007 fu inserito nella nuova struttura senza alcuna promozione o gratificazione. Fu il meno. Costretto a una non facile convivenza col generale Giuseppe Santovito, il nuovo capo dei Servizi militari, Giovannone continuò a manovrare in condizioni sempre più difficili in una Beirut stravolta dalla guerra. Finché non arrivarono le bucce di banana che gli costarono la carriera. Ci si riferisce alla scomparsa di Graziella di Paolo e Italo Toni, arrivati in Libano per indagare, da un punto di vista filopalestinese, sui traffici d’armi italiani. Il colonnello, incaricato delle indagini, avrebbe in realtà depistato la famiglia della giornalista. E poi ci si riferisce al traffico d’armi dell’Olp che avrebbe riguardato l’Italia e nel quale le Br, stando alle dichiarazioni di Patrizio Peci, avrebbero avuto un ruolo non secondario.
Il colonnello, caduto in disgrazia all’interno dei Servizi (gli restava la non disinteressata amicizia di Francesco Pazienza, personaggio inquietante e interessantissimo, sebbene decisamente borderline…), finì nel mirino di tre inquirenti: Giancarlo Armati e Renato Squillante, che indagavano da Roma sulla scomparsa di Toni e della di Palo, e Carlo Mastelloni, che si occupava, da Venezia, dei traffici d’armi. Quest’ultimo, in una bella intervista rilasciata a Grignetti, rende un paradossale onore delle armi al suo inquisito eccellente: Giovannone, sostiene il magistrato, non depisto per coprire sé stesso ma il Lodo Moro e la delicata rete di equilibri che ne erano derivati. Anche dopo la scomparsa dello statista, perché le linee politiche i politici veri non le improvvisano ma le compongono. E quella del Lodo Moro veniva da lontano: dalle simpatie filoarabe del fascismo e dalla politica economica di Enrico Mattei. Ma il magistrato sostiene che Giovannone abbia detto di più: «Sa, dottore, io ho lavorato per la Cia». Il che vuol dire che quella linea politica, adottata in seguito anche da Bettino Craxi, non era sgradita neppure agli americani, che si appoggiavano all’Italia, in particolare al Sismi, per la propria diplomazia parallela verso soggetti altrimenti inavvicinabili (l’Olp e la Libia). Ritagliare libertà d’azione e margini d’autonomia, garantire la sicurezza e il dialogo in quella situazione internazionale fu il vero capolavoro diplomatico del Lodo. E forse fu il motivo che spinse Craxi a confermare il segreto di Stato contrapposto da Giovannone ai magistrati che lo torchiavano.
La fine ingloriosa di questo 007 ribadisce ancora una volta quanto sia sottile il confine tra sicurezza e legalità e quanto sia difficile la scelta tra quest’ultima e la lealtà verso le istituzioni. Può la storia pacificare ciò che la cronaca ha diviso? Sì. E il bel libro di Grignetti lo conferma. Soprattutto, conferma che si può parlare di intelligence fuori dalle griglie ideologiche finora predominanti nella cultura ufficiale. Non è poco.
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