I Graveyard tornano assieme e fanno… Peace
Il quartetto svedese a un anno dalla reunion sforna Peace, un album zeppo di vintage rock che cita i Black Sabbath, i Pink Floyd e Jimi Hendrix
Difficile parlare di Peace, l’ultima fatica degli svedesi Graveyard, come di un album pacifico. A meno che i Nostri non si siano voluti riferire alla reunion del 2017, seguita al burrascoso (e mai chiarito) scioglimento dell’autunno precedente.
Certo è che la nuova raccolta di canzoni, pubblicata dalla storica Nuclear Blast, risente degli effetti benefici del ritrovato accordo, da cui è scaturita una formazione rimanipolata ma comunque affiatata a dovere: non c’è più lo storico batterista Axel Sjoberg e non è rientrato neppure il bassista e cofondatore Rikard Edlund, che aveva mollato la band prima dello scioglimento.
Ma c’è da dire che Oskar Bergenheim dotato di un tocco dinamico e pesante alle bacchette, e Truls Morck, che aveva partecipato alla registrazione dell’album d’esordio circa undici anni fa, non li fanno rimpiangere troppo, mentre il frontman-chitarrista Joakim Nilsson e il chitarrista Jonatan Larocca-Ramm sono quelli di sempre. Anzi: sembrano aver trovato una carica rinnovata. Che si sente, eccome.
Riguardo Peace i paragoni con il rock vintage alla Jimi Hendrix, con l’hard dei Black Sabbath, con i Pink Floyd e gli Allman Brothers si sono sprecati, a dire il vero in maniera non del tutto scorretta, sebbene non basti alzare il volume delle chitarre per sembrare Hendrix o provare soluzioni armoniche strane o dilatate per emulare i Floyd. Ma, al netto delle comparazioni facili, si può dire senza alcun problema che gli Graveyard sono tra i migliori rievocatori di quelle sonorità che hanno contribuito a rendere memorabile il periodo a cavallo tra la fine dei ’60 e la metà dei ’70.
L’opener It Ain’t Over Yet è un pezzo tostissimo e veloce di protometal: chitarre rozze, batteria a schiacciasassi, voce catarrosa e qualche spruzzata di hammond per aumentare la dose di vintage.
Pesante e sabbathiana la seguente Cold Love ruota tutta attorno a un riff ispirato dal Tony Iommi di Volume IV e sorprende lo spettatore con un bel bridge che, sì, evoca un po’ i Pink Floyd delle origini.
See the Day è una ballad per sole voce e chitarre, pulite ma riempite di eco all’inverosimile.
Please Don’t, uno dei due singoli tratti dall’album, ha un’andatura cadenzata e un riff bluesy che non dispiacerebbe ai Monster Magnet più vintage.
The Fox, l’altro singolo, vira invece sulla psichedelia East Coast: strumming acustico in sottofondo su cui la chitarra ricama dei controcanti e dei piccoli assoli con un suono volutamente panciuto.
Walk On inizia su toni countryeggianti e poi cresce su sonorità elettriche che si innestano su una ritmica terremotata.
Del Manic è una curiosa ballad psichedelica in cui nel cantato di Nillson emerge qualcosa di Nick Cave.
Ancora psichedelia nella bella Bird of Paradise, che si basa sul binomio acustico-elettrico.
Con A Sign of Peace si torna di nuovo ai suoni hard e alle ritmiche martellanti del proto metal.
Sempre nel segno del vintage, chiude l’album la tosta Low (I Wouldn’t Mind), un altro pezzo che sembra fuoriuscito da una jam degli anni ’70, pieno di suoni ruvidi, tirate ritmiche robuste e cambi di tempo repentini.
In conclusione, tutto fa pensare che Nilsson e soci abbiano fatto la pace solo per condurre in maniera più intensa la propria guerra a suon di schitarrate pesanti e percussioni martellanti.
Peace è un album che si rivolge senz’altro agli amanti del vintage ma in grado allo stesso tempo di offrire a tutti gli altri un’occasione per riscoprire i suoni seminali e polverosi del rock più genuino.
Da ascoltare (e da vedere):
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