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Panic! At The Disco, il secondo capitolo della loro svolta danzereccia

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È rimasto solo Brandon Urie e il loro recente Pray for the Wicked conferma la tendenza verso il pop più spinto. Addio chitarre, addio pop rock. La boy band di Las Vegas non c’è più

Diciamo subito tre cose.

La prima definire Pray for the Wicked (Fueled by RamenDCD2, 2017) pop rock è un azzardo, perché di rock, in questo album dai suoni retrò ma morbidi e danzerecci, non ce n’è quasi più, se non in qualche refrain.

La seconda: resta da chiarire se per i Panic! At the Disco si possa ancora parlare di band, o se quello con cui abbiamo a che fare, dal fortunato Death of Bachelor (2016) ad oggi, non sia piuttosto il progetto solista di Brendon Urie, l’unico membro fondatore rimasto, che in Pray for the Wicked suona tutto e canta benissimo.

Brendon Urie in concerto

Terza e ultima domanda: la virata secca e decisa verso il pop mainstream paga davvero, anche in termini artistici, oppure è solo una furbata per mantenersi a galla e capitalizzare al meglio le trasformazioni della scena indipendente americana che da qualche anno aggredisce le classifiche con successo?

Quest’ultimo quesito non è fuori luogo, perché tutto dà a pensare che le defezioni che hanno ridotto i Panic! a una one man band siano state il frutto della virata mainstream, che ha avuto in Urie il fautore più convinto, testardo e coerente.

Numeri alla mano, la coerenza, paga, perché Pray for the Wicked insegue da vicino il suo fortunato predecessore, di cui recupera il produttore Jake Sinclair, e ne ripete la formula sonora, sostanzialmente analogica, coi synth dai suoni orgogliosamente finti in bell’evidenza, come si usava anche negli anni ’90, quando i Panic! erano alle prime armi, si ispiravano al pop punk e sognavano di diventare i nuovi Radiohead.

Ambizione, evidentemente, finita nel cassetto, sebbene i quattro ragazzi di Las Vegas avessero le qualità per incidere seriamente nel rock, tant’è che qualche critico, forse con eccesso d’enfasi, aveva azzardato il paragone coi Queen.

Assodato che quella band (anzi, la band vera e propria) non esiste più, proviamo a rispondere: sì, la svolta pop è una furbata ed è una furbata che paga.

Certo, il metro con cui si deve valutare Pray for the Wicked non è quello dello spessore artistico, che pure non manca, ma dell’efficacia. In questo senso, le 11 canzoni dell’album sono esempi riusciti di un pop che mira a soddisfare le esigenze di un pubblico essenzialmente giovanil-adolescenziale, in linea con le attuali tendenze delle charts Usa.

La copertina di Pray for the Wicked

E (Fuck a) Silver Line, che apre l’album, risulta un efficacissimo brano danzereccio, pieno di richiami alla disco tardi anni ’70 e a certo funky elettronico in voga a inizio millennio.

Say Amen (Saturday Night) è un anthem da discoclub tirato e denso.

Hey Look Ma, I Made It, è un altro tormentone ruffiano, con un refrain soft e un coro pompatissimo.

High Hopes è un invito a ballare su un motivo pomposo e un po’ kitch, evidenziato dai sintetizzatori a tromba e dal ritmo incalzante e in crescendo.

Roaring 20s, invece, ha dei tocchi latin che ricordano qualcosa del Ricky Martin anni ’90.

Dancing’s Not a Crime è il pezzo più riuscito dell’album, con un riffing vagamente rock innestato su una base funkeggiante.

Molto particolare anche One of the Drunks, che si segnala per la varietà di approcci sonori, che oscillano tra la dance, il funky e il chill out.

La movimentata The Overpass è un altro ben riuscito crossover tra funky, dance e qualche spruzzatina di rock. Ottima la performance vocale di Urie, che duetta nel coro a colpi di falsetto con le voci femminili.

Carica di pathos, King of the Clouds, si evolve su un tempo spezzato che esalta il cantato soul e il coro epico.

Old Fashioned è un altro crossover con coro in crescendo e refrain hip hop.

Chiude l’album Dying in LA, una ballad intimista per piano, voce e synth, a dire il vero un po’ banale in cui risaltano soprattutto le non indifferenti doti vocali di Urie.

Uno e trino: ancora Brendon Urie

I tempi della sperimentazione sono finiti da un pezzo e i Panic!, o meglio ciò che ne resta, hanno finalmente centrato l’obiettivo perseguito da anni di diventare una pop band. Certo, il songwriting è raffinato e l’orecchiabilità a tutti i costi non è mai pacchiana, ma la banalità è un rischio concreto, più volte evitato per un soffio.

C’è modo e modo di essere una boy band. Quello dei Panic! At The Disco, che non sempre sono riusciti a conciliare le esigenze commerciali con le capacità artistiche consiste in un inseguimento furbesco nei trend giovanili che a inizio millennio erano senz’altro rivolti al punk e a certo guitar rock e oggi risultano in pieno riflusso.

Di questo riflusso risentono soprattutto i contenuti dell’album, ispirati a un esistenzialismo metropolitano banalotto da telefilm anni ’90 (avete presente Beverly Hills?).

Ma la riflessione impegnata, probabilmente, non è in cima alle preoccupazioni di Urie, che si è concentrato, e piuttosto bene, sulla resa musicale.

Pray for the Wicked è un buon prodotto di easy listening da disco club da ballare o da ascoltare in sottofondo. Ma nulla di più, perché, anche nella dance, la creatività vera è altrove.

Per saperne di più:

Il sito ufficiale dei Panic! At The Disco

Da ascoltare (e da vedere):

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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