Cosa avete fatto a Solange? La maladolescenza morbosa e la vendetta di un assassino
Un serial killer uccide le allieve di una scuola cattolica che nascondono una doppia vita e un segreto terribile
«Quelle ragazze sanno tutto, ci giurerei. Hanno sedici anni e un giro di fidanzati segreti. Gelosie morbose, orge, lesbicate. Scusami, ma è la verità. Non mi sorprenderebbe se scoprissero che si drogano». L’ambientazione è britannica, ma il moralismo italiano.
Il fatto è che nei primi anni ’70 la Summer of love e la swingin’ London sono passate da un po’ trascinandosi appresso il loro carico di sogni.
Non a caso, questa frase è pronunciata da un italiano: Enrico Rosseni (un bravo Fabio Testi), docente di ginnastica e lingua italiana nella St’ Mary, una prestigiosa scuola cattolica femminile.
Ambientazione londinese, produzione italiana e cast internazionale, Cosa avete fatto a Solange? (1972) è il quinto film di Massimo Dallamano, un bravo cineasta che esordì nel 1945 in un modo a dir poco particolare: fu lui l’operatore che riprese a piazza Loreto i corpi di Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi di Salò.
L’Inghilterra del 1972 ricicla le ansie e i sogni di liberazione del decennio precedente in una dimensione grigia e ludica, l’ideale per lo sguardo conservatore, cinico e disincantato di un osservatore italiano. L’ideale, soprattutto, per imbastire una storia morbosa – scritta da Bruno Di Girolamo e dallo stesso Dallamano e tratta liberamente da The Clue of the New Pin di Edgar Wallace – che si inserisce nel filone del giallo all’italiana, pur senza gli eccessi di Dario Argento, Lucio Fulci e Sergio Martino.
L’aitante professor Rosseni si è ficcato in un brutto guaio: sposato con una sua collega, la professoressa di matematica Herta (la bella interprete germanica Karin Baal), ha una tresca con Elisabeth Seccles (la spagnola Cristina Galbò, passata dai b movie all’interpretazione del flamenco) ed è sospettato dall’ispettore Barth (il tedesco Joachim Fuchsberger) dell’assassinio di Ilda Erikson, una sua allieva. Solo l’uccisione di Janet Bryant (la spagnola Pilar Castel) rimescola le carte e apre uno scenario inquietante: negli ambienti della scuola c’è un serial killer, che massacra le ragazze con morbosa efferatezza. Le immobilizza e poi le uccide con una pugnalata nel ventre. L’unica eccezione è Elisabeth, annegata nella vasca da bagno.
Proprio il delitto di Elisabeth fornisce un altro dettaglio: l’assassino agisce travestito da prete. Ma la vicenda si complica quando entra in scena Solange Beauregard, la figlia illegittima del professor Bascombe (il tedesco Gunther Stoll), affetta da una regressione psichica dovuta a un trauma che l’ha riportata all’infanzia.
Solange, eterea e inquietante, merita una nota a parte: è interpretata dall’attrice e modella americana Camille Keaton, in questo film al suo esordio assoluto. La Keaton avrebbe proseguito la sua carriera, culminata nel celebre e famigerato Non violentate Jennifer (1978), interpretando ruoli particolari ed estremi.
Le ragazze uccise hanno un’altra cosa in comune: tra i loro effetti custodiscono uno spillo dalla capocchia verde, segno di appartenenza a una specie di società segreta. Tuttavia, l’assassino non si limita a colpire solo loro: tra le vittime c’è anche Ruth Holden (interpretata da Emilia Wolkowicz), un’anziana contadina con doti da mammana che ha lavorato come colf per la famiglia di Brenda Pilchard (la tedesca Claudia Butenuth, che avrebbe continuato la sua lunghissima carriera in tv, dove figura tra le interpreti dell’Ispettore Derrik), un’altra ragazza coinvolta nella vicenda.
Ci fermiamo qui, per non guastare la visione di un giallo che, a 45 anni di distanza, sa ancora regalare qualche brivido e coinvolgere lo spettatore grazie a un buon ritmo narrativo.
Più elegante e meno truce dei suoi colleghi impegnati nel giallo all’Italiana, Dallamano dirige con una mano felice una storia morbosa, che ha una morale particolare: la perdita dell’innocenza, ribadita dai numerosi nudi adolescenziali. Oggi il particolare sembra risibile, ma all’epoca faceva comunque un certo effetto allo spettatore medio scoprire che le vittime sacrificali di un rito macabro, dietro il quale c’è una motivazione che non assolve ma comunque giustifica l’assassino agli occhi del pubblico più conservatore, siano delle lolite (o peggio, delle puttanelle).
Suona perciò quasi beffarda la frase di Philip, un personaggio secondario ma essenziale nell’economia del film: «Hai mai letto il rapporto Kinsey, amico?». Il riferimento all’inchiesta sociologica americana sulla sessualità, che tanto fece discutere i benpensanti degli anni del boom, scopre definitivamente le carte. La fanciullezza, ribadisce Dallamano, non è più un tabù. Ed ecco che Londra diventa grigia, grazie alla fotografia di Aristide Massaccesi (più noto con lo pseudonimo di Joe d’Amato, ma questa è un’altra storia) e fa concorrenza a Birmingham, dove certe illusioni non c’erano mai state e le pulsioni e il disagio giovanile venivano espresse dal nascente heavy metal. L’unico riferimento a quella generazione dorata è improprio e resta nella colonna sonora di Morricone, dove di swingin’ ci sono solo le partiture jazzate
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