Poliziotti Violenti: l’impegno civile nel cinema di serie b
Le suggestioni golpiste della strategia della tensione in un poliziesco truce e violentissimo firmato dal papà delle commedie sexy
«Era un confidente», spiega il commissario di Polizia Paolo Tosi (Antonio Sàbato, uno dei massimi interpreti del b movie all’italiana) al magistrato che indaga sull’assassinio di Clara (il caratterista Nicola D’Eramo) un travestito che lo aiutava a far luce su una strana ondata di violenza criminale. «Quand’è che la vorrete piantare con questi metodi borbonici dei confidenti?», gli risponde il procuratore.
«Dice bene lui, e quelli come lui che poi lasciano gli assassini in libertà», lamenta Tosi a un collega. «E cosa dovrebbero fare? Li dovrebbero condannare per quello che raccontiamo noi?», rilancia quest’ultimo, «certo, è quello che molti vorrebbero: l’ordine gestito dalla Polizia con pochi padroni». Evasiva la risposta del commissario Tosi: «Già, e i nemici ridotti al silenzio. Questo non è difficile da capirsi: ma è politica». Quest’ambiguo discorso è l’unica valvola di sicurezza a favore dell’ordine democratico in Poliziotti Violenti (1976) l’esordio di Michele Massimo Tarantini, cineasta altrimenti per le commedie sexy con Alvaro Vitali e Lino Banfi.
Nessuno, ovviamente, può aspettarsi un capolavoro, sebbene Tarantini diriga con un certo mestiere che in questo film emerge soprattutto nelle scene d’azione, bene interpretate da Sabàto e da un ottimo Henry Silva, a suo agio sia nelle scene violente (i consueti pestaggi, inseguimenti e sparatorie) sia, cosa piuttosto curiosa, nei pochi momenti intimisti della pellicola, dove recita a fianco della bella Silvia Dionisio, nel quasi virginale ruolo di Anna, la ragazza conosciuta in treno di cui si innamora.
Silva interpreta Paolo Altieri, un maggiore dei parà trasferito a Roma per impedirgli di indagare su alcuni strani incidenti in cui sono rimasti coinvolti alcuni suoi soldati. Ma il nuovo ruolo burocratico negli uffici della capitale, svolto alle dipendenze di un generale ambiguo (il bravo Claudio Nicastro) e assieme a un tenente infido (Daniele Dublino) non impedisce ad Altieri di ficcarsi nei guai. Il parà inquieto sventa, infatti, il rapimento di un bimbo ad opera di un gruppo di delinquenti, i quali si vendicano pestandolo a sangue (notevole la caratterizzazione di Thomas Rudy, caratterista proveniente dagli spaghetti western, nel ruolo di un delinquente con il vizio di mangiare merendine durante le sequenze più violente).
Proprio in seguito al pestaggio Altieri conosce Tosi e, dopo un’iniziale diffidenza, inizia a collaborare con lui su un curioso traffico di armi: mitra ad altissima potenza in dotazione sperimentale al suo reparto. Tra un inseguimento e una sparatoria – memorabile al riguardo la scena della rapina in ambulanza – i due pian piano dipanano una matassa inquietante: la recrudescenza di rapine e sparatorie ha il duplice scopo di destabilizzare l’opinione pubblica e di finanziare un colpo di Stato. Durante l’inchiesta, il poliziotto e il militare si imbattono nell’avvocato Vieri (Ettore Manni, ex bello del cinema degli anni ’50), un ricco industriale sospettato di avere un ruolo importante nelle manovre criminal-eversive al centro delle quali c’è il traffico dei mitra. Che sia così lo si intuisce da un dialogo a metà film: «Te lo dico subito: personalmente, da dove provengano quelle armi non mi riguarda. Quello che mi interessa, invece, è sapere l’uso che ne faranno. Cerca di capirmi, Altieri: io non posso mettermi nei guai», afferma il poliziotto. «Non ti illudere: ti ci troverai ugualmente», risponde il militare, «quelle armi sono state date a quella gente da qualcuno che ha obiettivi più vesti delle rapine e dei sequestri di persona e questo riguarda noi tutti: ricordatelo, se non vogliamo fare la fine dei topi».
Tra l’altro, questi stralci di dialogo sono l’unico accenno politico del film, che si basa essenzialmente su una sequenza di scene d’azione formidabili ed efferate, fotografate e montate con ritmo frenetico da Giancarlo Ferrando e Attilio Vincioni e commentate dalla micidiale colonna sonora funkeggiante dei fratelli De Angelis, non ancora approdati al successo televisivo come Oliver Onions. Certo, resta la suggestione forte del clima pesante di metà anni ’70, il periodo di passaggio dalla strategia della tensione agli anni di piombo propriamente intesi. E pesa, nell’impostazione di Poliziotti Violenti, anche il battage mediatico sulle strategie eversive di cui erano accusati interi spezzoni dell’apparato statale. Questa tematica, complottista e golpista allo stesso tempo, caratterizza non pochi film del periodo: ricordiamo tra gli altri La Polizia accusa: il servizio segreto uccide, Milano trema: la polizia vuole giustizia, entrambi di Sergio Martino, e, su un fronte più autorale, Io ho paura di Damiano Damiani e Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, senza tralasciare la felice parentesi satirica di Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli.
Il cinema italiano, felicemente onnivoro nella sua stagione migliore, non poteva rifiutare gli stimoli della cronaca, densi e tragici. E a questo trend non si sottrassero gli artigiani alla Tarantini che, pur non raggiungendo le vette dei maestri, sono riusciti a consegnare ai posteri film non banali come Poliziotti Violenti, che dalla sua ha una sceneggiatura tutto sommato interessante firmata dallo stesso regista, da Adriano Belli, Franco Ferrini e Sauro Scavolini. Per l’uomo medio degli anni ’70, che di sicuro non correva al cinema per vedere Pasolini, una pellicola così poteva bastare. Anche per questo val la pena di rivedere questo film, che è una resta una valida testimonianza sul modo in cui i nostri registi affrontarono, con un linguaggio semplice e spedito, i fremiti e le suggestioni di un’epoca che, comunque la si giudichi resta importante e irripetibile, nel bene e nel male, della nostra storia.
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