Metal vintage con… Superbia. Tornano i Death Alley
Il secondo album del quartetto olandese che si ispira a Motorhead e Hawkwind, rievoca con classe le atmosfere roventi del rock politicamente scorretto
Look da bikers un po’ rozzi, tipo Motorhead. E la sostanza musicale dei Death Alley, una band olandese attiva dal 2013 e che ha ottenuto una discreta notorietà nei circuiti di Nord e Mitteleuropa, non è troppo lontana dai fasti rumoristici di Lemmy e soci.
Infatti, il quartetto propone una ricetta musicale che spazia da certo protometal greve e psichedelico (MC5, Hawkwind e Stooges su tutti) all’hardcore. E Superbia, il loro secondo album uscito di recente per la Century Media, conferma appieno questa attitudine rusty, ma anche la voglia di evolversi e cercare una direzione più originale.
Non è il caso, al riguardo, di prendere troppo sul serio i paragoni fatti da altri recensori con mostri sacri come Blue Oyster Cult o King Crimson, accoppiati precipitosamente perché non basta fare pezzi superiori ai cinque minuti di durata per creare accostamenti ai mentori del progressive o ai fondatori del metal più inquietante e sofisticato.
Non è, va da sé, un fatto di capacità tecniche, che pure ai Death Alley non mancano. Ma di poetica musicale e di punti di riferimento: gli olandesi, in parole povere, non vanno nella direzione della raffinatezza, bensì evolvono in un quadro che resta comunque duro, greve e legato a una certa concezione degli anni ’70.
Questa concezione emerge subito in Daemon, che apre l’album con una cavalcata di nove minuti in un sound volutamente grezzo e sporco, grazie anche all’efficace produzione di Pieter Kloos. Il brano parte su un riff potente e duro del chitarrista e leader Oeds Beydals e si mantiene su un tempo dinamico per buona parte della durata, salvo evolvere nella parte finale, dopo una lunga digressione solista su temi psichedelici in un’impennata alla Motorhead, sostenuta dal basso distorto di Sanders Bus e dal drumming martellante di Uno Bruniusson. Sporca anche la voce di Dowe Truijens, perfettamente a suo agio nell’evocare le atmosfere proto metal.
Tuttavia, c’è da dire che i Death Alley rendono meglio sulle durate più brevi (o meno lunghe, fate voi). E infatti The Chain, poco sopra i tre minuti, è un bel brano potente e massiccio, in cui Beydals si produce in un riffing serrato su una base più compatta. Anche in questo caso la lezione di Motorhead e Hawkwind si fa sentire, nell’approccio ritmico sostenuto (e un po’ hardcore) e nei bridge piuttosto ariosi.
Più sofisticata Feeding the Lions, che cresce su un tempo cadenzato dopo un’introduzione strumentale. Impostazione 70es, sia nel cantato alla Monster Magnet, sia nel riffing.
Headlights in the Dark è un altro brano piuttosto vario, in cui emerge qualche influenza degli Zeppelin, soprattutto nella parte iniziale. Ottima la prestazione di Truijens, valido anche nelle parti più melodiche.
In Shake the Coil l’impostazione hardcore si lega con efficacia alle aperture psichedeliche. Un’altra prova di bravura per gli olandesi, che riescono a inserire cambi di atmosfera in una durata piuttosto breve (poco meno di quattro minuti).
Tosta e motorheadiana, Murder Your Dreams è arricchita dai consueti influssi lisergici e da una dinamica piuttosto movimentata piena di stop and go.
Pilgrim è il brano più psichedelico, che si muove su un bel controtempo serrato e sonorità meno dense rispetto al resto dell’album.
Chiude l’album la complessa The Sewage, una suite stoner da undici minuti e rotti in cui i Death Alley danno fondo al loro repertorio.
Niente male davvero questo Superbia, che consegna agli ascoltatori una band in piena crescita artistica.
Consigliato agli amanti di certe sonorità vintage e di certo rock eclettico. Duri con classe, i Death Alley meritano fiducia.
Da ascoltare (e da vedere):
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