Dagli Area al jazz colto, parla Pietro Condorelli
«La Calabria è pronta al suo salto di qualità. Il jazz? Non è solo musica, ma parte importante dell’immaginario contemporaneo»
Milano, dove è nato nel ’62 da mamma piemontese e papà siciliano. Ma anche il Sud, profondo e non: ad esempio, Napoli e Cosenza, dove ha insegnato. E poi Boston, dove ha esordito su cd assieme a Jerry Bergonzi. Il mondo non basta. E non è solo la citazione di un film di 007, perché per diventare un big della chitarra jazz, com’è accaduto a Pietro Condorelli, che ha ottenuto il riconoscimento di miglior nuovo talento (1997) e di musicista dell’anno (1999) da istituzioni musicali prestigiose, occorre girare dappertutto e prendere stimoli ovunque.
Ed ecco che l’eclettismo non è un caso: Condorelli ha scavato in più generi, dal rock al funk per arrivare al jazz, ha alternato la militanza negli Area alle attività solistiche e di gruppo, ha insegnato dappertutto e ha pubblicato anche una corposa bibliografia didattica.
Per lui il, il concerto che terrà il 25 marzo al teatro Il Piccolo di Castiglione Cosentino con la formazione Jazz Ideas and Songs, è un ritorno in Calabria, dove si è distinto sia come docente (ha insegnato, tra le varie, al conservatorio S. Giacomantonio di Cosenza) sia come musicista.
Partiamo da Jazz Ideas and Songs, il gruppo che Pietro Condorelli guida da qualche anno.
Più che un ensemble lo definirei un concept. È un progetto musicale complesso a cui partecipano dei colleghi bravissimi. Noi forziamo i confini del jazz per dare all’ascoltatore un’esperienza musicale ricca e fruibile, pur nella sua complessità.
Non solo musica, che si basa sulla ricerca di sonorità particolari (al posto del sassofono o della tromba, c’è il flauto traverso, che fa molto anni ’70) ma anche contenuti e citazioni colte. I testi, scritti da Condorelli assieme a Simona Boo, traboccano di spunti: da Kerouac a Saffo.
È il desiderio di andare oltre la musica, nella consapevolezza che essa è parte integrante del nostro immaginario: se ne nutre e lo influenza allo stesso tempo. Questa osmosi vale a maggior ragione per il jazz che, consapevolmente o meno, è stato, oltre che un genere musicale importante, un aggregatore di esperienze. Si pensi a Kerouac: è considerato a ragione il padre della beat generation, però le sue riflessioni sono iniziate, se mi si passa l’espressione, ascoltando jazz, che era poi la musica che ascoltavano i giovani degli anni ’50, quando il rock e il beat erano di là da venire.
Com’è iniziata l’avventura musicale di Pietro Condorelli?
Dal rock, come per molti chitarristi. Ho iniziato suonando in una band specializzata in rock blues, dai Deep Purple al blues elettrico. Poi ho studiato chitarra classica.
Infine la fascinazione del Jazz.
Sì, direi John Coltrane, Duke Ellington e Joe Pass. Ma, più che di fascinazione, parlerei di folgorazione. E toglierei l’infine: quando si scopre l’amore per un genere, non si chiude la porta agli altri. Anzi, si riscopre ciò che si ascoltava e suonava prima sotto una veste nuova e più ampia.
Condorelli ha lavorato a lungo in Calabria. Che ricordo ne ha?
Della mia esperienza didattica molto bello. C’è un pubblico di studenti, appassionati e musicisti molto attento e ricettivo. Sarebbe importante che tutti costoro facessero una rete perché potrebbe nascerne una bella scena.
Il solito problema calabrese dei particolarismi?
Non direi. Semmai penso che perché maturino certe cose ci vuole del tempo. E penso che la Calabria sia matura per tentare questo salto.
(a cura di Saverio Paletta)
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