Iacopino addio, due parole sul suo commiato
Il presidente dei giornalisti molla l’incarico
La sua accusa: troppi settarismi e troppe divisioni nell’Ordine
Ma il degrado della professione non si limita alla crisi finanziaria del settore
Per molti che si sono abilitati al giornalismo “professionale” Enzo Iacopino, il presidente dimissionario dell’Ordine dei Giornalisti, è stato una presenza occasionale e inevitabile. Inevitabile perché con lui occorreva fare i conti (non tantissimi, visto che è stato piuttosto tollerante e alla mano) per salire l’inutile gradino “superiore” del mestiere. Occasionale perché chi lavorava per davvero, sbattendosi in redazioni spesso caotiche, sovraffollate e mal attrezzate, non aveva troppo tempo da dedicare alla vita associativa.
L’Ordine, e quindi Iacopino (anzi, nonostante Iacopino), veniva percepito come un organismo distante in un ambiente dove spesso conta di più il rapporto – di amicizia, parentela, comparaggio o sudditanza: fate voi – con l’editore di turno, dove la trattativa privata prevale sempre più sui contratti collettivi, dove la botta di fortuna, a tacer d’altro…, prevale spesso sul merito, dove il più della fatica se l’accollano i pubblicisti, cioè quelli che “possono fare un altro mestiere” ma schiattano lo stesso con orari impossibili perché fanno i giornalisti come tutti gli altri. E qualche volta di più.
«Grazie soprattutto a quanti si asterranno dal fare pettegolezzi», così il presidente ha chiosato il suo discorso di addio alla presidenza l’ex capo dei giornalisti.
Non ne faremo neppure noi. Tuttavia, è impossibile non cogliere le frecciate dell’ex presidente, una più acuminata dell’altra, tutte scoccate in punta di penna.
Ecco un assaggio, pesante e sottile allo stesso tempo, dello Iacopino-pensiero: «Il recupero della credibilità della categoria si è rivelato un vero fallimento. Prevalgono un gioco perverso e irresponsabile di opposte militanze, il settarismo, la superficialità, le urla, le volgarità. C’è chi si compiace di galleggiare tra gelati e patate. Perfino la trasmissione di segnalazioni ai Consigli di disciplina territoriali, un atto imposto dalle leggi e dalle norme interne, diventa materia per polemiche, alimentate da “professori del diritto” che si dividono equamente tra analfabeti e oltre».
Che dire? A parte i nomi omessi, e si potrebbe tirare a indovinare con un’alta possibilità di azzeccarli, c’è poco da eccepire.
Ma è un altro passaggio del discorso che dà la misura di questo fallimento, senza le virgolette: «L’equo compenso, una battaglia dell’Ordine tesa a dare dignità e speranza alle migliaia di “ultimi” di tante età, è morto. Assassinato da fuoco amico! Da chi ha accettato che si codificasse il prezzo della schiavitù: 4.980 euro (tasse, spese, foto, video, abstract per l’online) per il lavoro di un anno. Vergogna, non per chi lo impone, ma per chi tra noi se ne è fatto complice».
Difficile dagli torto. Ma è pur vero che questa miseria è il punto, si spera terminale perché ancor più giù sarebbe tragico scendere, di una crisi che non è solo economica.
Di più: di una crisi di cui l’aspetto economico è solo una parte.
Non è stato fatto nulla, per dirne una, per riqualificare i giornalisti o perché chi si imbarcava nel mestieraccio lo facesse con un minimo di basi. D’accordo, il presidente dimissionario l’ha ribadito più volte in pubblico, i titoli spesso non sono indicativi di nulla. D’accordo, lo abbiamo appreso dai manuali e da qualche collega anziano: saper scrivere o saper parlare non è indispensabile, non è tutto, perché il giornalista mica è un intellettuale. D’accordo, viene detto ai neofiti disposti a qualsiasi sacrificio (e, purtroppo, in molti casi, a vari compromessi): più che leggere occorre consumarsi le scarpe per recuperare le benedette notizie.
Nessuno, forse neppure Iacopino, si è accorto che questa prassi vecchissima ha generato i giornali farciti di refusi, sgrammaticature, luoghi comuni. Nessuno si è accorto, o chi l’ha fatto ha taciuto perché in fondo gli andava bene così, che questa prassi, che risale ai tempi in cui i media erano prodotti “a mano”, ha legittimato lo sfruttamento più becero. E a poco sono serviti i tamponi, escogitati col concorso di un mondo accademico in debito d’ossigeno: la laurea in Scienze della Comunicazione, il più grande errore di Umberto Eco, si è rivelata un fallimento e i costosi postlaurea fabbricano professionisti che, se va bene, guadagneranno meno dei pubblicisti di ieri.
Ma la categoria è poco credibile anche sotto un altro, pesantissimo profilo: l’elevata facilità con cui, in Italia, si può essere querelati e rinviati a giudizio.
Gli allarmi dell’Ocse, che considera l’Italia una misera retroguardia nella libertà d’espressione, poco al di sopra di vari Paesi africani e asiatici, restano inascoltati. In parte per colpa dell’ignoranza che regna sovrana nella categoria. Ma in parte per il rifiuto a codificare in una legge, come volevano i Radicali, il diritto all’informazione. Una norma così, per essere chiari, esiste negli Usa e in Inghilterra, dove non c’è l’Ordine ma dove la libertà di stampa è ossequiata. Noi, invece, siamo vittime di una normativa vecchia e disarmonica, dove il più è affidato a una giurisprudenza capricciosa, che cambia indirizzo ogni tre per due.
Tutto ciò fa il gioco dei grandi gruppi editoriali, che stipendiano plotoni di avvocati. Ma chi pensa ai tanti, i più, che si consumano nelle redazioni locali, dove, tra editori e corpo giornalistico, si fa a gara a chi ha più pidocchi?
A tacere del fatto che i giornalisti sono vittime di un paradosso: il semplice errore, l’omesso congiuntivo e il titolo sbagliato possono costare anni di guai a fior di professionisti, mentre il cittadino comune può svelenare, parolacce incluse, sul web con buone possibilità di farla franca.
La crisi c’è ed è grave, ma noi giornalisti, non ci siamo accorti che il mestieraccio cambiava e apprenderlo a suon di mobbing in redazioni sempre più improbabili è inutile: ci si massacra di fatica per imparare roba vecchia. E non ci siamo accorti che applicare vecchi metodi di lavoro è controproducente. Infatti, la nostra contrattazione collettiva ripete gli schemi degli anni ’70, sempre più inapplicabili, a danno soprattutto di chi lavora.
Di tutto questo Iacopino non ha colpe, visto che ha ereditato questa. Ma prima, quando si facevano le “spese allegre” denunciate dal presidente dimissionario, che succedeva? Il web e le nuove tecnologie erano in agguato e nessuno ha preso provvedimenti per tempo.
In questo stato di cose è chiaro che l’equo compenso è diventato l’alternativa alla illegalità diffusa, praticata alla grande da sedicenti e improvvisati editori che maramaldeggiano i colleghi, prendono in giro gli aspiranti tali e, quando possono, scaricano sui dipendenti le loro responsabilità di imprenditori (il che accade puntualmente quando le mammelle pubbliche smettono di produrre il latte pagato spesso con cartaccia piena di sgrammaticature e refusi).
In bocca al lupo, presidente Iacopino: sappiamo che ha fatto il possibile. Ma sappiamo anche che questo possibile non basta più.
Saverio Paletta
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