Il caso "Venere Privata", un noir francese che parla italiano
Caccia al maniaco nella Milano nera di Giorgio Scerbanenco in un film atipico d’inizio ’70 con un’inedita Raffaella Carrà
Giorgio Scerbanenco ne Il caso “Venere Privata”, il secondo in ordine cronologico tratto dalle opere dello scrittore italo-ucraino, c’è. Anche se parla francese.
Parla francese anche Duca Lamberti, a cui presta il volto scavato e lo sguardo profondo Bruno Cremer, già celebre oltralpe ma non ancora conosciuto dal pubblico italiano, che lo avrebbe apprezzato nel decennio successivo, prima nei panni del subdolo e glaciale Antonio Espinosa de La Piovra e poi in quelli del Commissario Maigret.
È francese anche Livia Ussaro, interpretata dalla bella Marianne Comtell, all’epoca attiva anche in Italia (nei ruoli Matilde, l’amante del protagonista de Il commissario Pepe, e della madre di Paolo il caldo). È francese anche Davide Auseri, interpretato dal bel Renaud Verley, reduce da Nell’anno del Signore e da La caduta degli dei. È francese, inoltre, il cervello del film, quell’Yves Boisset che, dopo essersi formato con Riccardo Freda, avrebbe riscritto i canoni del poliziesco d’Oltralpe
In compenso, Mario Adorf, che fa la parte del cattivo, è piuttosto tedesco, anzi svizzero e non fa nulla per nasconderlo, visto che in questa pellicola ha i capelli biondi e parla con un leggero accento teutonico.
Agli italiani, cioè le belle Marina Berti, Vanna Brosio e Agostina Belli e l’ottimo Claudio Gora, restano ruoli da comprimari. Ma non fa niente, perché l’azione si svolge a Milano, l’irrinunciabile teatro dell’opera scerbanenchiana. Di più: Milano sta a Scerbanenco come la provincia siciliana a Sciascia, l’altro grande ispiratore del noir italiano. Certo, nella pellicola di Boisset c’è troppa luce e i colori sono piuttosto accesi (merito e colpa del direttore della fotografia Jean-Marc Ripert), in aderenza ai dettami della pop art che ha influenzato non poco il cinema dell’inizio dei ’70. Il che, per i cultori dello scrittore italo-ucraino, che Milano se l’immaginano grigia (di cemento e di tristezza) è un difetto non da poco. Ma oltre Milano, a bilanciare il cast a favore dell’Italia, c’è una giovane Raffaella Carrà (all’epoca ventisettenne), protagonista della scena iniziale, un nudo fetish piuttosto audace per l’epoca e tuttora censurato nelle edizioni televisive del film.
Nulla a che vedere, per restare al cinema ispirato da Scerbanenco, con lo stupro efferato che apre I ragazzi del massacro, o con le sequenze forti di I milanesi ammazzano al sabato. In questo caso, l’approccio morboso è piuttosto diluito in un noir di maniera, diretto con eleganza (anche troppa, per essere un film tratto da un soggetto scerbanenchiano) e con quel ritmo lento un po’ tipico di certa cinematografia francese e, più in generale, del cinema di quegli anni.
È notorio che Il caso “Venere Privata” si ispiri a Venere Privata (Milano, Garzanti, 1966), il primo romanzo dedicato dallo scrittore di Kiev a Duca Lamberti, figura atipica di investigatore: un medico condannato e radiato dalla professione per aver praticato un’eutanasia su una malata terminale e quindi costretto a improvvisarsi detective.
Anche la trama, che raccontiamo solo in parte, è piuttosto nota: Duca Lamberti, su incarico del questore Luigi Càrrua, cerca di curare il giovane Auseri, il figlio di un ricco ingegnere caduto in depressione e finito nel tunnel dell’alcolismo in seguito a una vicenda traumatica. La Venere Privata che gli ha causato lo choc è Alberta Radaelli (la Raffa nazionale), una giovane che per arrotondare i suoi magri guadagni di commessa dei Magazzini Generali, posa nuda per un sadico. Alberta conosce Auseri, giovane e bello come lei ma ricco, e ha un breve flirt con lui. Poi, il giorno dopo l’avventura, si suicida.
Proprio la soluzione di questo suicidio enigmatico è la chiave per guarire Davide. L’inchiesta, condotta da Lamberti con l’aiuto di Livia Ussaro, un’amica di Alberta, è piuttosto particolare. La Ussaro, sociologa universitaria, inizia a girare la Milano by night in cui Alberta cercava di evadere dalla monotonia della povertà vestendosi come la suicida per adescare il maniaco.
A proposito della trama, è doveroso riportare una critica piuttosto diffusa, tra gli specialisti e il pubblico comune, su questo film: riguarda l’eccessiva semplificazione – operata in sede di sceneggiatura da Antoine Blondine, Francis Cosne e dallo stesso Boisset – del soggetto originale, che sconfinava nel racconto gangsteristico. Pure esigenze cinematografiche o la semplice necessità di rendere esportabile Scerbanenco in Francia? Certo, c’è chi si chiede cosa sarebbe diventato Venere Privata in mano a Di Leo, visto che, tolto l’intreccio malavitoso del romanzo, resta ben poco del fascino della storia originale. Intendiamoci, l’accenno scerbanenchiano rimane. Se ne ha una traccia ben definita nel dialogo tra Marina, la sorella di Alberta, e Duca Lamberti: «Vi meravigliate, eh? Immaginavate chissà cosa… Vedendola, tutti immaginavano qualcosa di diverso. Tutti, tranne le guardie e gli uscieri. Potete capire che in certi momenti si ha voglia di evadere, si ha bisogno di fuggire da tutto questo. E lei, Alberta, ha avuto il coraggio di tentare». E la realtà, l’immancabile povera casa di ringhiera in un naviglio meneghino, da cui Alberta cercava di scappare, è desolata, la Milano degli emarginati dal boom, di cui Scerbanenco è stato un cantore realistico e controcorrente nella sua crudezza: «C’è poco da capire. Ecco: un frigorifero sicuramente ancora da pagare, un televisore. Ma cosa credete? Volete sapere quanto guadagnava nel magazzino dove lavorava?».
Un altro aspetto su cui soffermarsi è la critica sulla presunta mancanza di ritmo del film: siamo sicuri che in un noir questo sia un difetto? O, piuttosto, questa critica tradisce sin troppo l’assuefazione alle moderne tecniche di montaggio frenetiche, al limite della schizofrenia, a cui ci ha abituato il cinema contemporaneo, in evidente affanno sui tempi televisivi?
Il Caso “Venere Privata” resta, a distanza di quasi cinquant’anni, un bel giallo girato in maniera pulita e con una buona suspense. Certo, è privo del fascino dei b movies italiani ed è condizionato dalla pretesa all’autoralità a tutti i costi tipica dei cineasti francesi. Non ci sono gli effetti spettacolari e i colpi di scena ultraviolenti di Di Leo, né le colonne sonore ultra suggestive del trio Bacalov–Morricone–Ortolani (il commento musicale di Michel Magne, carico di echi morriconiani e motivetti psichedelici è onesto e gradevole, ma nulla di più). Però la pellicola di Bossat, vale una visione serena e approfondita. Anche se, occorre dirlo, il Duca Lamberti gallico sembra per davvero il fratello minore di Maigret.
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