Jazz e non solo, parla Moroni
«Il purismo non paga, esistono solo la musica buona e quella cattiva»
Curriculum chilometrico, classe ’62 il pianista genovese Edgardo Dado Moroni è un punto fermo del jazz internazionale.
Musicista colto ed eclettico, Moroni, pur provenendo da una gavetta dura e pura (anche nel senso del purismo musicale), non ha disdegnato contaminazioni fuori genere. Al riguardo si ricordano le collaborazioni col pianista classico Antonio Balista e con alcuni big del pop tricolore: Lucio Dalla, Eros Ramazzotti, Tiziano Ferro, Ornella Vanoni e Mietta.
Questa propensione si è rivelata anche in Two for Stevie (2014, Roma, Via Veneto Jazz–Jandomusic) in cui il Nostro esegue assieme al sassofonista Max Ionata 11 hits di Stevie Wonder. Il risultato è di gran classe: nessuna edulcorazione, il jazz raffinato dei due non risulta annacquato e il soul del grande artista afroamericano non ne esce stravolto e imbarocchito. Segno che virtuosismo e sobrietà possono benissimo andare a braccetto. I due riproporranno dal vivo l’album, che segue di due anni l’analogo progetto Two for Duke dedicato a Duke Ellington, il 4 marzo presso il teatro Il Piccolo di Castiglione Cosentino in occasione della rassegna musicale Jazz da Gustare, ideata e diretta dalla pianista e organizzatrice musicale Maria Letizia Mayerà. In attesa del concerto, Dado Moroni racconta i retroscena dell’album e spiega lo star dell’arte della scena jazzistica italiana.
Scegliere qualcosa in una produzione vasta e qualitativamente alta come quella di Stevie Wonder non è facilissimo. Con che criteri vi siete orientati?
Abbiamo seguito due linee guida: la continuità armonica con il nostro precedente progetto, Two for Duke, e la portabilità delle linee melodiche in partiture solo strumentali. Ciò spiega la nostra selezione e alcune esclusioni.
Spiega anche perché c’è Isn’t she lovely e mancano I just called e Part time lover?
Anche. L’idea di questo album è venuta in mente a Giandomenico Ciaramella, che aveva prodotto Two for Duke, mentre prendevamo un aperitivo in una terrazza romana. Sulla base del successo di quest’ultimo album, lui ci suggerì di replicare l’iniziativa con Stevie Wonder. Abbiamo operato la selezione in tempi brevissimi e abbiamo arrangiato i brani con soluzioni armoniche simili a quelle usate nel nostro omaggio ad Ellington. Quindi era ovvio che scegliessimo i brani che si prestavano di più. Inoltre, come ho già detto, anche l’aspetto melodico è stato fondamentale: molte canzoni, e ciò vale anche nel caso di Wonder, hanno delle linee melodiche che, separate dalle parole, risultano troppo elementari e perdono di efficacia quando vengono eseguite a livello strumentale. Detto questo, in molti ci hanno segnalato esclusioni illustri. Di più: spesso anche noi ci siamo resi conto in ritardo che alcune canzoni potevano essere incluse in questo cd. Pazienza, sarà per la prossima volta.
Ci sarà una prossima volta?
Perché no? Two for Stevie ha avuto molti consensi. Ciò mi sembra un buon incentivo per proseguire questo discorso musicale.
Con la reinterpretazione di Wonder si esce un po’ dal jazz e ci si orienta verso la fusion. I puristi potrebbero storcere il naso.
E magari c’è chi lo storce per davvero. Duke Ellington diceva: «Nella musica esiste solo la musica bella e la musica brutta». Quella di Stevie Wonder non solo è grande musica, ma si presta benissimo anche ad essere riletta in chiave jazz. Inoltre, visto che da alcuni anni mi dedico alla didattica, penso che partire da autori come lui può essere importante per attirare al jazz un pubblico non specializzato. In fondo, si parte sempre da ciò che si conosce per arrivare a ciò che non si conosce o non si conosce bene. E ciò vale non solo per il jazz e, dico di più, non solo per la musica.
In tutto questo il purismo non potrebbe risultare controproducente?
Ad essere puristi non si ricava nulla. Questo “talebanesimo”, purtroppo, è tipico della mentalità europea e italiana in particolare. Negli Usa non è così. Di recente sono tornato a New York, dove tra l’altro ho vissuto per 12 anni, e ho potuto notare e apprezzare ancor più questa differenza. Lì non esistono gruppi e compartimenti stagni, ma i musicisti si seguono a vicenda cercando di carpirsi le caratteristiche e i segreti professionali. Non c’è la logica un po’ tribale che divide i musicisti per gruppi. E che può essere anche dannosa a livello professionale: ho sentito sin troppe volte snobbare dei colleghi solo perché lavoravano anche come turnisti per artisti pop. Che male c’è in certe scelte?
Two for Stevie è il secondo lavoro in duo con Max Ionata. Com’è nato questo sodalizio artistico?
È un sodalizio umano, oltre e ancor prima che artistico. Lo conobbi in seguito a una jam session che si svolse circa diciassette anni fa durante il festival di Atessa, il suo paese. Lui, senza conoscermi, mi invitò a suonare. Terminata la jam mi chiese chi fossi. Quando gli rivelai la mia identità, restò incredulo: non sapeva che suono sin da quando avevo quattordici anni e credeva che fossi più vecchio. Per convincerlo dovetti fargli vedere la mia carta d’identità. Da allora siamo diventati molto amici e ci teniamo sempre in contatto, anche quando non suoniamo assieme.
Non è la prima volta in Calabria per Dado Moroni.
No, e sono davvero contento di tornare in questo territorio. La prima volta fu nel 1983, quando suonai al teatro Rendano assieme a Sal Nistico, che aveva origini calabresi. Subito dopo il concerto cosentino, suonammo a Catanzaro, dove Nistico incontrò per la prima volta i propri parenti, originari appunto del Catanzarese. Fu un episodio molto commuovente. Ricordo inoltre con molto piacere di essere stato a Torano Castello in occasione della consegna delle chiavi della città a John Patitucci, il cui padre era originario di lì. Ho passato dei giorni magnifici in cui ho apprezzato il vostro calore, il vostro vino e il vostro cibo.
(a cura di Saverio Paletta)
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