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I milanesi ammazzano al sabato. I bordelli proibiti di una città sanguinaria

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Rapimento e assassinio di una giovane minorata. Un “puttantour” poliziesco nella Milano di 50 anni fa. Da un romanzo di Giorgio Scerbanenco

«Se oggi avessi dovuto lavorare, gli assassini li avrebbe trovati prima lei, ma oggi è sabato, io non lavoro e li ho trovati io». Sguardo perso nel vuoto, una chiazza di sangue che cola sulla fronte. Chi parla è Amanzio Berzaghi (interpretato dall’intenso Raf Vallone, non più il bello di Riso Amaro), padre di Donatella (la britannica Gillian Bray, figona dei b movie anni ’70), una bellissima ragazza ritardata e ninfomane, rapita da un gruppo di insospettabili balordi che intendevano avviarla alla prostituzione.

L’interlocutore di Berzaghi è il commissario Duca Lamberti (il bravissimo Frank Wolff, tedesco-americano attivissimo nel cinema tricolore sin dai ’60). «Migliaia di ragazze spariscono ogni giorno», dice Lamberti in un’altra scena a Berzaghi. «Sì, ma ora è sparita la mia bambina», è la risposta.

Il seguito del dialogo è ancora più struggente: «Ci sono tanti genitori che hanno perso i propri figli», incalza il commissario Lamberti. «Ma ora è capitato a me», replica Berzaghi.

Sullo sfondo (ancora…) la Milano cupa e livida raccontata da Giorgio Scerbanenco.

Ma stavolta non c’è il ritmo di Fernando Di Leo, bensì la lettura quieta ma non per questo priva di suspense di Duccio Tessari, che con I milanesi ammazzano al sabato (1970), tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore italo-ucraino, tenta di emanciparsi dai film d’azione.

La trama del film (conosciuto anche col titolo La morte risale a ieri sera) è piuttosto fedele a quella del libro, il quarto volume della saga di Duca Lamberti è piuttosto nota: la storia di un caso terribile di giustizia fai da te di un genitore ansioso di sapere prima che fine abbia fatto la propria figlia disabile («Ma a venticinque anni una è una donna», dice Lamberti. «No, anche quando avrà cento anni la mia Donatella sarà sempre una bambina», risponde amaro Berzaghi), poi, a ritrovamento avvenuto, di guardare in faccia gli assassini. Fino alla tragedia finale.

Ma il finale terribile e cruento, nel film come nel romanzo, è la classica beffa del destino. Una mattanza evitabile, provocata dal ritardo, leggero ma fatale, con cui la polizia rintraccia i colpevoli: due uomini e una donna, che uccidono la povera Donatella quando questa, dopo aver fruttato loro fior di quattrini, diventa all’improvviso scomoda. Una patata bollente di cui disfarsi.

Una storia sordida, che in parte anticipa dei classici come Il giustiziere della notte (1974), di Michael Winner con il mitico Charles Bronson. Ne abbiamo citato uno solo per comodità. Ma è difficile pensare che il cinema e la letteratura della vendetta, debitori delle cronache crude della nera di quegli anni, non abbiano recepito gli spunti scerbanenchiani.

La parte prevalente del film, come da tradizione del poliziesco, è dedicata alle indagini condotte nei bordelli di Milano da Lamberti, coadiuvato dal suo braccio destro Mascaranti (interpretato da Gabriele Tinti, volto noto del cinema di genere italiano e protagonista maschile della serie Emanuelledi Joe d’Amato al fianco della moglie Laura Gemser), dalla moglie (interpretata dalla tedesca Eva Renzi), dal magnaccia Salvatore (il playboy e imprenditore piacentino Gigi Rizzi, protagonista di un flirt con Brigitte Bardot e papà di Number One, la prima discoteca italiana aperta a Brera nel ’67) e dalla prostituta Herrero (la giamaicana Beryl Cunningham, icona sexy e colorata dell’Italia anni ’70).

Quest’ultima, coprotagonista nella seconda metà del film, è il personaggio chiave che darà una svolta alla vicenda. Ma è anche l’anello di congiunzione tra la Milano normale e borghese (quella media a cui appartiene Lamberti, quella alta, di cui fa parte lo squallido ingegnere disposto a spendere fior di quattrini per divertirsi con la povera Donatella, e quella piccola e borderline, fatta di lavoratori e bottegai, di cui Berzaghi e la congrega di balordi che gli hanno rapito e ucciso la figlia sono dei prototipi convincenti) e quella oscura. «Sono negra prostituta», dice Herrero a Lamberti, «un nome facile da ricordare». La battuta potrebbe essere stata pronunciata oggi, tanta è l’attualità del tema.

Lo spaccato sociologico del film emerge con prepotenza nella sequenza della retata, dove si vede e si sente di tutto. «Faccio la puttana», dice una delle prostitute, «mica mi avete trovato dal parrucchiere». «Io non mi servo dei protettori», dice una tenutaria, «perché sono una signora: offro un servizio a molte ragazze che vogliono lavorare».

E tra queste ragazze c’è una varietà impressionante: la prostituta professionale («il tempo chi me lo dà per un lavoro normale?»), la studentessa e la casalinga desiderose di arrotondare, ecc. Herrero, la negra prostituta, è solo l’anello finale.

Ma è solo una sequenza, perché il film, scerbanechiano in maniera sin troppo canonica (e la sceneggiatura di Artur Brauner, di Biagio Proietti e dello stesso Tessari è molto fedele al romanzo) non indulge in questo tipo di analisi, per le quali anche il regista non era troppo versato.

Ai curiosi non sfuggirà il cameo del comico Jack la Cayenna, che interpreta la parte di un albergatore.

I Milanesi ammazzano al sabato è un noir triste, dal ritmo discreto che predilige il racconto ai colpi di scena, e musicato in maniera piuttosto convenzionale da Gianni Ferrio, l’arrangiatore delle star: gli unici momenti sopra le righe della colonna sonora sono le canzoni I giorni che ci appartengono (che accompagna i titoli di testa) e Incompatibile (che invece commenta le scene in cui appare Donatella), entrambe interpretate da Mina.

A quasi cinquant’anni di distanza, il film lascia ancora una profonda amarezza, grazie anche alla fotografia livida di Lamberto Caimi. Da rivedere, magari in una versione restaurata, che ancora non esiste.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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