In memoria di Jan Palach, la torcia di Praga
Quasi cinquant’anni fa lo studente si immolò per protestare contro l’invasione sovietica
Anticomunista? No. O, almeno, non nell’accezione che il termine ha preso a partire dagli anni ’70 in Italia. Il che implica che Jan Palach, che 49 anni fa si era dato fuoco a piazza San Venceslao, nel centro di Praga, non fosse neppure un occidentalista, sempre nella stessa accezione, né tantomeno un criptofascista.
Più semplicemente, era un giovane socialista che aveva creduto nella breve stagione delle riforme promosse e in parte attuate dall’allora primo segretario del Partito comunista cecoslovaco Alexander Dubcek.
L’unico motivo per cui il composito fronte anticomunista europeo adottò Palach e ne fece un’icona fu la tragicità del suo gesto eclatante, estrema protesta contro l’occupazione sovietica iniziata nell’agosto del 1968 in risposta ai tentativi di liberalizzazione politica. Si ripeté allora, ma senza le stesse tragiche scene di guerriglia urbana, quel che era avvenuto in Ungheria 22 anni prima: una parte consistente dell’opinione pubblica, anche inquadrata nei rigidi schemi imposti dai partiti comunisti, si sollevò contro le ingerenze esterne. In altre parole, avvenne un cortocircuito all’interno degli stessi sistemi socialisti.
Forse fu proprio il terribile precedente dell’Ungheria – barattata dall’Occidente con la stabilizzazione della Corea – a dissuadere i cecoslovacchi dal seguire alla lettera l’esempio magiaro e ad evitare un altro bagno di sangue. Che, a rileggere quegli eventi col senno del poi, sarebbe stato inutile. L’unico salasso subito dalla Cecoslovacchia fu l’emigrazione di massa, stimata in 70mila abitanti che lasciarono il paese.
Tra questi lo scrittore Milan Kundera, che avrebbe raccontato tutta la vicenda in alcuni passaggi magistrali de L’Insostenibile leggerezza dell’essere, considerato dai più il suo capolavoro.
Ricordiamo la scena del suicidio in diretta di Palach, diventata anch’essa un simbolo del sacrificio in nome della libertà.
È il tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969. Il sole è quasi al tramonto nel rigido inverno praghese. A quell’ora piazza San Venceslao – che in realtà è un boulevard nel centro della capitale e non a caso i cittadini di Praga lo chiamano Piccoli Champs-Élisées – è piena di persone. Il giovane studente di filosofia, ventun anni compiuti da poco, sale sulla gradinata del Museo Nazionale, proprio di fronte all’uscita della metropolitana, si versa addosso della benzina e si dà fuoco. Non prima di aver fatto cadere per terra uno zaino a tracolla. Un tranviere tenta di soccorrerlo. Spegne le fiamme col proprio cappotto, ma per Jan Palach c’è ormai poco da fare: morirà dopo tre giorni d’agonia all’Ospedale di Praga.
Nello zaino messo in salvo dal tramviere («Salvi la lettera», gli avrebbe detto Palach agonizzante) verrà ritrovato un documento in cui il giovane spiega i motivi del suicidio.
Rileggiamo i passaggi più inquietanti del messaggio disperato di Palach:
«Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zpravi [il notiziario delle truppe d’occupazione sovietiche, Nda]. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà».
Dopo di lui moriranno in sette, tra cui l’amico Jan Zajíc, che emulerà Palach alle due del pomeriggio del 25 febbraio 1969, ai piedi della statua di San Venceslao. Anche la sua lettera contiene un messaggio inquietante:
«Mamma, papà, fratello e sorellina! Quando leggerete questa lettere sarò già morto o molto vicino alla morte. So quale profonda ferita provocherò in voi con questo mio gesto, ma non preoccupatevi per me… Non lo faccio perché sono stanco della vita, ma proprio perché la apprezzo. E la mia azione ne è forse la migliore garanzia. Conosco il valore della vita e so che è ciò che abbiamo di più caro. Ma io desidero molto per voi e per tutti, perciò devo pagare molto».
Martiri? Senz’altro. Ma il loro martirio era una protesta estrema contro l’occupazione militare, mandata dai sovietici per evitare l’implosione del patto di Varsavia, e non contro il socialismo, dentro il quale erano cresciuti e si erano formati. Difficile pensare a Palach come a un giovane di destra. Troppo abissale la distanza tra lui e i giovani destrorsi italiani ed europei che l’avevano adottato come simbolo, con tutta probabilità per mancanza di alternative, perché il pantheon degli eroi fascisti era invecchiato e poi perché, imbarazzante per i giovani di sinistra, lo studente era un’icona libertaria che la propaganda avrebbe trasformato in anticomunista.
In realtà la repressione della Primavera di Praga fu un dramma geopolitico, che dimostrò l’irriformabilità dei sistemi del socialismo reale. L’Urss che interveniva in Cecoslovacchia per bloccare il decentramento politico non era l’Urss di Chruscev, che aveva mandato i carri armati a Budapest per evitare che la rivolta ungherese si trasformasse in un inciampo irrimediabile alla destalinizzazione.
L’impero guidato dall’ucraino Leonid Breznev, che aveva mandato i carri armati per fermare i seguaci di Dubcek,era ormai sulla difensiva e aveva perso il propellente ideologico, usurpato dalla Cina maoista. La preoccupazione era di difendersi e, soprattutto, di non perdere pezzi. Primum vivere, insomma, e costi quel che costi.
Ne fece le spese la Cecoslovacchia, il paese più ricco e colto dell’Europa dell’Est. Non a caso, il vecchio cuore industriale della Mitteleuropa asburgica era rimasto al di là della cortina grazie allo stesso compromesso che aveva consentito all’Italia e alla Grecia di restarne al di qua: eccezioni vistose alle regole del sistema dominante. Detto altrimenti, un welfare forte e invasivo per i due paesi occidentali a rischio, maggiori libertà e ricchezze private per la Cecoslovacchia. Come a dire che le marche di confine di un impero tendono a somigliare fatalmente a quelle dell’impero opposto. E perciò le riforme di Dubcek, che aveva preso il posto di Antonín Novotny, erano la naturale evoluzione della via praghese al socialismo reale. I sovietici intervennero non contro le riforme in sé, visto che la destalinizzazione cecoslovacca fu più veloce e brillante che altrove, ma perché queste riforme, troppe e troppo veloci, rischiavano di compromettere il controllo politico sul paese e, quindi, di rendere vulnerabile il sistema di equilibri che rendeva possibile la pace armata con la Nato.
Fu una cinica mossa geopolitica, consumatasi nell’indifferenza dell’Occidente, che tutto voleva fuorché lasciarsi trascinare in un conflitto per difendere la voglia di libertà altrui. Chiedere altre risposte alla storia (ad esempio su cosa sarebbe successo se Dubcek non fosse stato fermato) sarebbe troppo.
La protesta suicida degli otto studenti trasformatisi in torce umane non illuminò nessuna libertà: ci sarebbero voluti altri otto anni perché i partiti comunisti occidentali tentassero lo strappo da Mosca. Semmai gettarono lumi sinistri sulla disperazione di un paese e di una generazione abbandonati e costretti all’impotenza. E ricordano ancora quanto sia labile il confine tra la non violenza e la violenza verso sé stessi.
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