Addio a George Michael. Si è spenta la stella del pop anni ’80
Sia chiaro: nel caso di George Michael non si parla di un artista vero, come ad esempio Greg Lake, andatosene per un brutto tumore alla vigilia dell’Immacolata. Oppure, per restare nel pop, come David Bowie, che il 10 gennaio ha inaugurato la serie nera dei decessi, più o meno tragici e qualche volta prematuri (quelli di Prince, morto a 57 anni, e del rapper Phife Davig, scomparso a 45), che hanno falcidiato la scena musicale nel 2016.
Anno orribile, hanno commentato in tanti. Ed è un luogo comune non troppo esatto, perché anche il 2015 è stato duro. Ed è stato duro il 2014.
Il motivo di queste morie, in realtà, è piuttosto banale: l’anagrafe. Il rock che oggi celebra i suoi lutti è stato creato e reso grande da persone (e personaggi) che negli anni ’60 e ’70 avevano più di 20 anni. E che sono arrivati al nuovo millennio sopravvivendo spesso ad abusi e stravizi. Sono due generazioni arrivate al capolinea per motivi fisiologici e, nel caso dei morti prematuri, patologici.
«A morte è ’na livella», diceva Totò. E non è il caso di insistere in distinguo su quale degli illustri scomparsi sia stato il più grande. Questo compito, difficilissimo, tocca agli storici. Non ai tanti giornalisti, quelli non specializzati, che hanno ripreso alla meno peggio Wikipedia per ricostruire la carriera di Michael, né a quelli di settore, che inonderanno gli scaffali di biografie più o meno accurate per sfruttare l’onda lunga delle celebrazioni necrofile. Qui ci limitiamo a notare che il vuoto lasciato da questi artisti, che hanno riempito coi loro suoni e le loro immagini la seconda metà del secolo scorso, è irrimediabile e che lo star system difficilmente potrà riproporre modelli altrettanto genuini e originali, cioè non costruiti a tavolino dai manager e curatori d’immagine che nell’ultimo trentennio si sono moltiplicati a dismisura come una metastasi.
George Michael è stato l’iniziatore di questa tradizione di musicisti costruiti a tavolino. Voce morbida e gradevole ma niente di più, bell’aspetto e un certo gusto per le melodie, è nato negli ’80 come star formato famiglia per ragazzine. E questo ruolo lo ha imprigionato al punto di condizionarne in negativo la seconda metà della comunque lucrosissima carriera.
Prendiamo l’esempio dell’omosessualità: a riprova di come il pop possa essere più bacchettone e maschilista del metal, fare outing per George Michael è stato più difficile che per Rob Halford, il mitico cantante dei Judas Priest: non si può lucrare una fortuna sulle tasche delle teenager e poi dire loro che è meglio bussare altrove per i propri sogni adolescenziali. Il secondo confessò le proprie inclinazioni senza problemi (tanto più che i Priest avevano avuto non pochi guai d’immagine a causa di una brutta vicenda di pedofilia per cui era stato condannato il loro ex batterista Dave Holland). Michael, invece, ha dovuto subire la morte per Aids del proprio compagno, avvenuta nel ’93, prima di poter esternare. E poi la vita da sbandato, passato da uno scandalo all’altro fino al tragico epilogo di Natale.
Eppure anche nel suo caso resta qualcosa: il sax languido e il coro stiracchiato di Careless Whisper ci ricorderanno le feste dell’adolescenza e il techno pop sognante di Last Christmas ci ricorderà, anche negli anni a venire, che il Natale resta il tempo dei sogni, anche se non è più il Natale opulento e carico di illusioni degli anni ’80.
Volenti o nolenti, alcune canzoni dell’artista anglo-greco fanno parte della nostra colonna sonora. Una soundtrack spesso coatta, letteralmente imposta dai media. Ma anche questo fa parte del gioco, perché nei film la musica è imposta dai registi e dai produttori e il film della vita (non più in bianco e nero come per i nostri genitori, ma con i colori finti e brillanti di trent’anni orsono) non fa eccezione.
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