Addio alla voce del rock virtuoso
Immacolata in nero per il mondo del rock: è morto Greg Lake, uno dei padri del progressive e stella di prima grandezza degli anni ’70
È triste iniziare a parlare di rock con un necrologio. Ma la scomparsa di Greg Lake, storica voce (e basso, e chitarra, più qualcos’altro) del progressive è di quelle che lasciano il segno e non si può prescindere dal dire due parole.
Non tanto per il valore culturale – perché il rock è una cultura oltre che un genere musicale – ma per quello artistico. Lake non inneggiò alle rivoluzioni né fece parte del power flower. E quando la Summer of Love impazzava a Londra, lui si faceva le ossa nei Gods assieme a Ken Hensley e Lee Kerslake, che di lì a qualche anno avrebbero fondato gli Uriah Heep, altra storica band del rock mondiale.
Oggi lo chiamiamo rock, perché distinguere tra l’hard e il prog, che avrebbero marchiato a fuoco gli anni ’70, non ha più senso, oggi. All’epoca erano filoni distinti: se facevi hard, al massimo eri un funambolico esibizionista, se imboccavi la strada del prog forse eri meno figo (insomma, le possibilità di acchiappare come Robert Plant si riducevano di molto), ma eri colto e potevi sperare di dialogare da pari a pari con gli ambienti elevati. Tanto più che i Beatles e i Beach Boys avevano sdoganato l’uso delle orchestre, i Moody Blues si erano messi a fare concept album e persino gli Who avevano un po’ mollato il sound tosto che li aveva caratterizzati nella seconda metà dei ’60 per giocarsi (bene) la carta della rock opera con Tommy. Tutto questo senza menzionare lo sperimentalismo dei Pink Floyd. Il rock progrediva – diventava progressive, appunto – e Lake scelse il sound colto.
Galeotta fu l’amicizia con Robert Fripp, un ragazzo che veniva dal Dorset come lui e assieme al quale aveva preso lezioni di chitarra. Ecco, il momento focale: grazie alla comune amicizia col poeta e paroliere Pete Sinfield, nascono i King Crimson. Un parto mica da poco: prima che, nel 1969, uscisse In the Court of the Crimson King, il rock era già parecchio progressive, ma non lo sapeva. Dopo quest’album, una delle pietre miliari della musica del ’900, non si poteva più fare rock colto senza dirsi progressive. E questa consapevolezza ha la voce cristallina, dolce e potente di Greg Lake, che aveva mollato da tempo la chitarra per passare al basso.
Il tempo di una massacrante tournee e poi l’addio ai Crimson, non prima di aver partecipato alla registrazione di In the Wake of Poseidon.
Poi l’incontro fortunato con Keith Emerson e con il superbatterista Carl Palmer. A differenza di Lake, Emerson era già una star: virtuoso delle tastiere, pignolo e maniaco dell’ego, era riuscito a riproporre sull’organo Hammond il piglio di Hendrix sulla chitarra. Il tutto unito a citazioni dalla musica colta. Un mix oggi scontatissimo ma che, allora, in un’epoca di musicisti autodidatti non sempre dotati del necessario bagaglio culturale, non era così scontato.
Ecco, se si vuole proprio cercare una differenza tra i musicisti che stavano per esplodere nei ruggenti ’70 e quelli che li avevano preceduti, era tutta una questione di preparazione. I primi avevano studiato più degli altri. E la rivoluzione che i secondi volevano veicolare attraverso la musica, i musicisti degli anni ’70 l’avrebbero realizzata direttamente e solo nella musica.
Gli Emerson, Lake & Palmer furono il supergruppo che più degli altri sintetizzò questa evoluzione. Esordirono col botto, con due album EL&P e Tarkus, pieni di riferimenti colti, armonie ardite e caratterizzati dallo stile pirotecnico dei tre che, da soli, valevano un’orchestra. Con Trilogy arrivarono i tour mondiali e le vendite da capogiro. Erano diventati star imbastendo un grande spettacolo in cui l’elemento più spettacolare era la musica.
Furono, assieme agli Yes, gli estremisti di quella concezione della musica che basa tutto sulla capacità tecnica. Il virtuosismo fu la delizia, loro e dei fan che li ascoltavano e li amavano più dei critici che storcevano il naso. Ma fu anche la loro croce: raggiunsero l’apice col live Welcome Back My friends, to the Show that Never Ends, registrato in California nel ’74 e poi si trascinarono per tutto il resto del decennio fino allo scioglimento, nel pieno riflusso degli ’80, ridotti a dinosauri e vittime degli strali dei protagonisti delle nuove mode, i punk in prima fila.
Riflusso da tutto, soprattutto dalle passioni ad alta tensione del decennio più creativo del ’900. E tra queste passioni c’era il virtuosismo.
Finito il supertrio, Lake si barcamenò tra esperienze soliste, giusto per dar seguito a I believe in Father Christmas, un suo singolo natalizio del ’74, collaborazioni ad alti livelli (con Bon Dylan, Pete Townshend e gli Asia) e tentativi di reunion, naufragati a marzo col suicidio di Keith Emerson, ormai in pieno declino psicofisico.
Anche Lake era l’ombra di se stesso: divorato dal cancro, probabile esito di anni di stravizi, si è spento la vigilia dell’Immacolata. L’ultimo riconoscimento, una laurea honoris causa, gliel’aveva conferito a gennaio il Conservatorio di Piacenza.
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