Ora della Calabria, dallo scandalo al flop in aula?
Il giornale calabrese chiuse nel 2014 dopo una storia torbida, ancora non chiarita in sede giudiziaria. Gli inquirenti accusano: il tipografo bloccò il quotidiano per impedire la pubblicazione di una notizia scomoda. A breve riprenderà il processo da cui, in tanti, soprattutto i giornalisti che vi lavoravano, attendono risposte
Salvo rinvii e imprevisti dell’ultima ora, il 16 gennaio riprenderà il processo a carico del tipografo Umberto De Rose per la vicenda dell’Oragate. Alzi la mano chi ne ha un ricordo non confuso.
Vi rinfreschiamo la memoria con due frasette di De Rose, registrate nottetempo e quindi diventate virali sul web, da Luciano Regolo, l’ultimo direttore (solo in ordine cronologico) dell’Ora della Calabria (che era poi il nuovo nome di Calabria Ora): «Alfrè, l’ha cacciata ’ssa cazz’i notizia?»; e poi il capolavoro retorico, trasformato in satira dalla vendetta dei giornalisti: «’u cinghiale, quann’è feritu mina ad ammazzare». Questa frasaccia in particolare, rivela un tic fantozziano, tipico dei ricconi che spacciano la loro perenne battuta ad effetto per perla di saggezza e la ripetono come un mantra. De Rosa, riferiscono i bene informati, avrebbe usato la metafora del cinghiale nello spogliatoio del Cosenza Calcio per incitare i giocatori a vincere. E la ripeté la notte tra il 18 e il 19 febbraio 2014 ad Alfredo Citrigno, l’editore dell’Ora, per incoraggiarlo a togliere una notizia scomoda dal suo giornale.
Una cosa non da poco, per la stampa calabrese: la notizia riguardava un’inchiesta a carico di Andrea Gentile, avvocato e figlio del senatore Antonio Gentile, esponente di Ncd in procinto di diventare sottosegretario del governo Renzi e big della politica regionale. Gentile jr era finito nel mirino degli inquirenti nell’ambito di un’inchiesta sulla Sanità cosentina, ai cui vertici c’era il direttore generale Gianfranco Scarpelli, primario medico e uomo di fiducia della famiglia Gentile.
La notizia su Gentile jr era non facilissima da ottenere perché non era ancora stato emesso l’avviso di garanzia che lo riguardava. Infatti, non proveniva dalla Procura (che, nel caso specifico, era quella di Paola) ma dai corridoi dell’Azienda sanitaria, allora commissariata perché Scarpelli era stato sospeso.
Fatto sta che il fatidico 19 febbraio l’Ora della Calabria non uscì: la telefonata di De Rose, oltre che infelice, era stata intempestiva. Fu tempestivo, invece, Regolo, che era con Alfredo Citrigno in auto ad ascoltare e registrare la conversazione assieme a lui.
La telefonata fu divulgata il pomeriggio del 16, quando ancora si credeva che la mancata uscita del giornale fosse dovuta a un guasto alle rotative. Su questo punto ci fermiamo qui, perché ora, a processo avviato, la parola spetta all’autorità giudiziaria, che dovrà decidere se alle accuse lanciate da Regolo e dai giornalisti dell’Ora e sostenute in prima battuta da una buona parte dell’opinione pubblica nazionale e non solo, corrisponda una verità giudiziaria. Se, in altre parole, le dichiarazioni supertrash di De Rosa concretino o meno l’ipotesi di violenza privata per cui lo stampatore è finito alla sbarra.
La verità storica, più o meno c’è. C’era la notizia a carico di Gentile jr. C’è stata la telefonata di De Rose che dichiarava (e siccome Regolo non è stato querelato per diffamazione né è stata dimostrata la falsità della registrazione, prendiamo per buono anche questo passaggio) di parlare per conto della famiglia Gentile, c’è stato il blocco delle rotative, che invece parrebbe funzionassero.
Manca tuttavia il collegamento tra la famiglia Gentile, perché il nome del senatore Gentile è apparso solo sulla stampa, e De Rose.
Ma la verità storica ha avuto, lo rammentano generazioni di intellettuali, sempre un rapporto complesso con quella giudiziaria. Le sentenze non esauriscono i fatti e i fatti, a loro volta, spesso neppure entrano nei faldoni.
Dunque: è un fatto che l’Ora della Calabria fosse un giornale in agonia già dalla fine del 2013, quando si era dimesso Piero Sansonetti, il predecessore di Regolo. Non a caso, è emerso da alcune intercettazioni, la famiglia Citrigno avrebbe avuto in quel periodo l’intenzione di cedere la testata per evitare le possibili vertenze dei giornalisti. E al riguardo c’è da dire che entrambi i direttori inciamparono sui piani di risanamento del quotidiano, che prevedevano tagli lacrime e sangue. L’Ora, che al momento del tracollo aveva tre edizioni regionali (quella di Cosenza, quella del blocco catanzarese, che includeva Catanzaro, Vibo Valentia e Crotone, e quella di Reggio Calabria), si sarebbe dovuta ridurre a una sola edizione. Sansonetti si dimise e Regolo provò a resistere alla guida del giornale, non fosse altro che per orgoglio professionale.
Inoltre il personale, già in regime di solidarietà dalla primavera del 2013, avrebbe dovuto sopportare l’aumento della quota di solidarietà. Attenzione: non si parla di un giornale in regola con il contratto collettivo nazionale dei giornalisti. I suoi redattori erano tutti uguali per quel che riguardava gli obblighi professionali: orari, mansioni e via discorrendo. Erano intensamente diseguali per quel che riguardava le retribuzioni: il fatto che sulla stessa scrivania sedessero persone con gli stessi oneri ma differenti retribuzioni era la norma.
Ma la mazzata finale, quella vera, per L’Ora era arrivata prima. Il 28 gennaio 2014 la Dia aveva sequestrato 100 milioni di euro in beni alla famiglia Citrigno. Il padre di Alfredo, Piero Citrigno, big dell’edilizia prima e della Sanità privata poi, è stato un editore non privo d’intuito. Non a caso fondò Calabria Ora nel 2006, di cui tenne le redini fino al 2013, quando fu condannato in via definitiva. Il processo si chiamava Twister e riguardava in origine i rapporti proibiti tra la politica e la malavita di Cosenza. Citrigno fu scagionato da ogni ipotesi di collusione mafiosa tuttavia, nei suoi confronti rimase in piedi l’accusa di usura che si tramutò in condanna in seguito al giudizio della Cassazione.
Proprio sulla base della condanna, la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro operò il maxisequestro, che formalmente non toccava la C&C, la società editrice dell’Ora, ma comunque la danneggiava non poco, perché bloccava i capitali di alcune società che possedevano quote rilevanti della casa editrice.
Lo scandalo Oragate piombò nelle vite di tanti, tra giornalisti, editori e fornitori, proprio in un momento complesso. Il giornale era zeppo di debiti e aveva cambiato editore più volte (su questa vicenda su cui non è il caso di dire altro perché la magistratura cosentina vi ha imbastito un’altra inchiesta, arrivata di recente a dibattimento), ma il sequestro diede la botta finale. E c’è di più: il principale creditore dell’Ora era proprio Umberto De Rose. Anche lui un uomo di fiducia della famiglia Gentile. Non a caso, De Rose, quando esplose l’Oragate era alla guida di Fincalabra, la finanziaria della Regione Calabria.
Il giallo, a questo punto, si complica: tra i Gentile e i Citrigno c’era di mezzo De Rose. Per il resto le due famiglie, un tempo molto amiche, erano in gelo da vari anni. Solo lo stampatore aveva tenuto buoni rapporti con entrambe. Forse per questo, sussurrano i maligni, si è trovato da solo col cerino in mano?
Infatti, alla fine della giostra, l’unico a finire sotto processo è lui. E non solo per l’Oragate. Anche la sua presidenza di Fincalabra gli ha portato qualche guaio: finito sotto inchiesta anche per gli incarichi conferiti ai figli di Andrea Gentile (nella fattispecie il già menzionato Andrea e Lory Gentile), De Rose è stato riconosciuto responsabile di danno erariale dalla Corte dei Conti per l’incarico affidato a Lory Gentile.
Dal punto di vista imprenditoriale, tuttavia, per lui è cambiato poco: perso un giornale, ne ha trovati due. Ci si riferisce al Garantista, il quotidiano fondato da Piero Sansonetti a giugno 2014, in cui trovò rifugio una quota consistente di ex giornalisti dell’Ora, e alla Provincia di Cosenza, fondato da Ivan Greco, ex agente pubblicitario dell’Ora e da un altro gruppo di ex giornalisti dell’Ora. Un po’ più costoso, a detta degli addetti ai lavori, ma più paziente verso i propri clienti e debitori, De Rose mantiene un ruolo importante nell’editoria periodica calabrese. Non a caso, dopo la chiusura del Garantista, stampa Le Cronache di Calabria.
Infine, è un fatto che il processo a carico del tipografo, già partito a rilento (il che non può che far piacere alla difesa per via della prescrizione), prosegue mutilo. Nessun membro della famiglia Gentile è rimasto coinvolto. E a ragione, visto che non risulta provata, neppure in fase istruttoria, nessuna loro pressione su De Rose affinché quest’ultimo premesse su Citrigno jr. Insufficienza del quadro indiziario o incapacità di chi doveva trovare le prove? Non è questa la sede per dirlo né per seminare illazioni.
Inoltre, manca all’appello una delle potenziali parti civili: Alfredo Citrigno, anche lui vittima sulla carta della violenza privata di cui è accusato (il solo) De Rose, non si è costituito parte civile ed è intervenuto nel processo solo in qualità di teste. Non si sarebbe costituito, ha dichiarato ai magistrati, per via dell’amicizia di famiglia. È rimasto in trincea Regolo, sostenuto dalla Fnsi, a cui resta il merito di aver alzato la testa in una situazione torbida. La difesa, rappresentata dall’avvocato Franco Sammarco, un big dei tribunali calabresi specializzato nella tutela processuale dei pezzi da 90, ha tentato tutte le carte. Ha provato a impedire l’acquisizione dei tabulati telefonici di quella terribile notte, ha messo in dubbio l’autenticità di quella registrazione, che pure ha fatto il giro d’Italia. Ha provato a impedire l’acquisizione della perizia fatta sulle rotative della tipografia. Intendiamoci: nulla di illegittimo in tutto questo, è solo la difesa che fa il suo. Ma il dato che lascia perplessi è che ciò avvenga a distanza di sicurezza dallo scandalo, con l’opinione pubblica distratta e dimentica.
Quasi come se quella vicenda non fosse successa o fosse successa altrove. Non sono le aule di giustizia i luoghi più adatti a discutere della libertà di stampa, non fosse altro perché da queste aule proviene una delle giurisprudenze più liberticide d’Occidente. Però l’Oragate è un caso quasi unico nell’editoria dell’Italia repubblicana. I pochi precedenti di un giornale bloccato in stamperia per impedire l’uscita di qualche notizia scomoda risalgono ad Op, il celebre settimanale di controinformazione di Mino Pecorelli e anche in questo caso ci auguriamo di cuore che tra le due storie ci sia solo una somiglianza e non una coincidenza.
Resta la storia oscura di un organo di informazione rimasto stritolato nel duello tra un potentato economico e uno politico. E c’è da sperare che i magistrati cosentini diano finalmente una risposta seria.
Per saperne di più
Ora della Calabria, un colpo di scena “annunciato”
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