Controversie per un massacro. Via Rasella nel racconto imparziale di Dino Messina
La storica firma del Corriere della Sera ricostruisce nel suo ultimo libro gli eventi più tragici dell’occupazione tedesca a Roma. Con grande rigore e senso dell’umanità omaggia le vittime delle Fosse Ardeatine ma restituisce una voce (e la dignità) ai trentatré militi altoatesini uccisi nell’attentato e alle vittime accidentali della bomba dei Gap
Un ammiccamento celiniano nel titolo – che rinvia al celebre e tragico Bagatelles pour un massacre – ma grande rigore nel linguaggio e nei contenuti.
Dino Messina, firma storica ed ex caporedattore delle pagine culturali del Corriere della Sera, non si smentisce mai: Controversie per un massacro (Solferino, Milano 2024), la sua ultima fatica, è un libro con molti meriti.
Tra questi, la serenità, di giudizio e quindi di scrittura, con cui rievoca una tragedia ultradivisiva nella parte più divisiva della storia italiana: l’eccidio delle Fosse Ardeatine e, soprattutto, il suo antefatto, l’attentato di via Rasella.
Una tragedia in due atti nel cuore di Roma, che la scorsa primavera ha compiuto ottant’anni. Una ricorrenza a cifra tonda che, da sola, motiva la scelta dell’argomento.
Ma il valore aggiunto del libro sta nel taglio particolare: Messina si concentra sull’attentato e, praticamente per la prima volta nell’editoria mainstream, offre un identikit delle trentatré vittime dei gappisti romani.
Questo identikit smentisce (ed era ora) molti luoghi comuni di certa sinistra resistenziale e alcune baggianate della destra postfascista. In particolare quelle di Ignazio La Russa, che nel 2023 ha dichiarato: «Via Rasella è stata una pagina tutt’altro che nobile della Resistenza, quelli uccisi furono una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS».
Il presidente del Senato l’ha sparata grossa sulle trentatré vittime, che erano effettivamente militi delle SS, sebbene questa qualifica fosse solo militare e non politica, ovvero non si trattava di nazisti. Resta valida la prima metà dell’affermazione: non fu un episodio nobile.
Quest’ultima è un’affermazione di chi scrive, non riconducibile a Messina. Il quale offre una ricostruzione degli eventi inequivocabile e imparziale.
Ma Controversie per un massacro contiene, per fortuna, uno sguardo pietoso, sia (com’è ovvio) verso i 335 italiani trucidati nelle Fosse Ardeatine, sia verso i 33 poliziotti militari altoatesini del SS-Polizeiregiment Bozen. Quest’ultima considerazione è tutt’altro che scontata e per questo ancor più meritevole: chi indossa una divisa in guerra si aspetta di morire su un campo di battaglia o durante operazioni militari, non mentre rientra da un’esercitazione a bordo di una camionetta nel cuore di una città.
Resistenti borghesi e soldati proletari: identikit a confronto
Il garbo di un vero giornalista sta anche nei suggerimenti e nelle suggestioni, perché ciò che non si dice e i suoi sottintesi può pesare nel racconto come le affermazioni esplicite.
In questa direzione, ha un suo peso l’identikit comparato (una vera chicca del libro) degli attentatori e delle loro vittime.
Iniziamo dai primi.
Rosario Bentivegna, all’epoca dell’attentato studente di Medicina, proviene da una famiglia agiata di tradizioni risorgimentali. Suo nonno Rosario era stato docente di Ingegneria sanitaria alla Sapienza di Roma e assessore nella giunta di Ernesto Nathan.
Giorgio Amendola, futuro intellettuale e parlamentare comunista, è il figlio dell’ex ministro liberale delle Colonie Giovanni Amendola.
Carlo Salinari, critico letterario e futuro preside di Lettere alla Sapienza, proviene da un’agiata famiglia borghese.
Franco Calamandrei, futuro redattore de L’Unità (quella vera), dirigente e senatore del Pci, è nipote di Rodolfo, professore universitario fiorentino di ispirazione repubblicana, e di Piero, l’illustre giurista, tra i padri del Codice civile, prima, e della Costituzione poi.
Il discorso è diverso per i militi del Bozen, di cui Messina offre un’ottima carrellata, ricavata dal bel reportage (oggi di difficile reperibilità): Quelli di via Rasella, condotto nel 1977 dal giornalista de L’Alto Adige Umberto Gandini.
Tra i sopravvissuti c’è Josef Prader, un falegname di Bressanone che all’epoca dell’intervista ha 74 anni. Si è salvato assieme a un altro altoatesino, Franz Bertagnoll (che all’epoca di via Rasella ha trent’anni) perché il 23 marzo 1944 non partecipa all’esercitazione come i suoi camerati, ma monta di guardia.
Più miracolosa la salvezza di Peter Putzer: grazie alla sua statura (è il più altro del battaglione) deve marciare in prima fila. Perciò quando esplode la bomba nascosta dai gappisti in un carretto della nettezza urbana, si trova piuttosto avanti e al sicuro, dato che il botto colpisce la parte centrale del plotone in marcia. Giusto un altro dettaglio: Putzer in quel maledetto ’44 ha 40 anni e 4 figli. Quando è arruolato nel Bozen, nell’ottobre ’43, la sua figlia più piccola si ammala e muore. Lo sfortunato milite non riesce a ottenere la licenza per partecipare al funerale della bimba.
Muoiono sul colpo in 33. Altri 55 del battaglione restano feriti. Tra questi Franz Cassar, che perde un occhio e resta zoppo a vita. Silvester Putzer, un altro quarantenne, si salva la vita perché il suo blocchetto da furiere, che porta nella tasca sinistra del petto della giubba, devia una scheggia, che altrimenti gli avrebbe perforato il cuore. Miracolosa la salvezza del trentenne Josef Praxmarer, che porta sulle spalle una cassa piena di esplosivi. Una raffica di schegge roventi investe il milite, ma per fortuna (sfacciata) sua e di chi gli sta accanto nessuna tocca la cassa…
Per il resto è una mattanza orribile. Perché chi muore, muore malissimo: decapitato dall’esplosione, dilaniato dai detriti, quasi disintegrato dalle bombe a mano che porta alla cintola e che esplodono anch’esse in seguito al botto principale.
Muore malissimo anche Pietro Zuccheretti, un ragazzino di 13 anni che lavora come garzone in un negozio di ottica e quel giorno si trova a passare per caso da via Rasella. L’esplosione lo prende in pieno e lo fa letteralmente a pezzi. È una delle due vittime civili dell’attentato e la sua memoria riemergerà a partire dai tardi anni ’80 e sarà oggetto di un gioco vergognoso di rimpalli continui, a cui non è estraneo neppure Bentivegna.
Italiani a metà e non ancora tedeschi
Un dato deve far riflettere: quasi tutti i militi del Bozen sono over 30, quindi non giovani volontari fanatici delle Waffen SS.
Questo corpo di polizia militare è inquadrato nelle SS perché corpo di polizia, non perché corpo politico. Detto altrimenti: per ragioni burocratiche e non ideologiche.
Inoltre, i militi che lo compongono sono cittadini italiani di nazionalità tedesca. E vivono, anzi subiscono una situazione delicatissima in quello scorcio di ’44, quando il concetto di cittadinanza italiana è piuttosto labile in Alto Adige.
Infatti, il comando germanico ha unificato le provincie di Bolzano, Belluno e Trento in una zona di operazioni militari sui cui la Repubblica Sociale Italiana esercita una sovranità solo nominale: La Ozav, ovvero Operazionszone Alpenvorland (Zona di operazioni delle Prealpi).
Sulla carta, molti militi del Bozen sono volontari. Ma di fatto sono dei coscritti, anche con le cattive: se non si arruolano passano i guai e non da soli, perché anche i parenti rischiano ritorsioni.
I tedeschi, c’è da dire, non li amano troppo e non si fidano di loro. Il battaglione di stanza a Roma è comandato dal maggiore Hellmuth Dobek, un tedesco di origine boema, che tenta di far partecipare i suoi sottoposti alla rappresaglia delle Fosse Ardeatine per vendicare i camerati assassinati.
Ma i militi altoatesini sono irremovibili: sono cattolici e religiosissimi. Quindi non se la sentono proprio di partecipare al massacro di civili inermi. E non c’è niente da fare per convincerli: anche nei frangenti più tragici la coscienza può avere la meglio. Soprattutto quando, come ha giustamente evidenziato Messina, le stesse SS tedesche che hanno eseguito la rappresaglia hanno accusato stress e malori.
Non è il caso, a questo punto, di indulgere in considerazioni pasoliniane (i figli di papà contro gli sbirri proletari, per capirci), perché non le fa neppure l’autore. Al quale resta il merito di uno sguardo pietoso nient’affatto scontato e di fatto inedito.
Strage contro strage: parla anche il diritto
La parte più succosa di Controversie… è quella che racconta i tanti processi legati a via Rasella e alle Fosse Ardeatine.
Si parte con quelli a carico del feldmaresciallo Albert Kesserling, di Herbert Kappler e di Erich Priebke, rispettivamente tenente colonello e capitano delle SS.
Ma, cosa apparentemente sorprendente, si culmina con quelli intentati agli attentatori, soprattutto a livello civile (i feriti e i parenti dei morti accidentali) per ottenere i risarcimenti e, a volte, penale. E si termina con le cause per diffamazione, civili e penali, intentate a Il Giornale, e terminate con una decisione della Cassazione che rimette nero su bianco a inizio millennio che l’attentato di via Rasella fu un atto legittimo di guerra e che quindi turbare la memoria dei Gap di Roma può essere un illecito o, peggio, un reato.
Una verità giudiziaria può scrivere da sola la storia? No. Né, soprattutto, sana le polemiche sorte praticamente da subito: a partire dalle Fosse Ardeatine a finire a strascichi più recenti, in entrambi i casi interni agli ambienti resistenziali.
Il democristiano Giuseppe Spataro chiese il 26 marzo 1944 che il Cln prendesse le distanze dall’attentato, voluto e rivendicato dai soli comunisti. Fu messo in minoranza da Sandro Pertini, che appoggiò Amendola.
La medaglia d’argento al valore, conferita dal presidente Luigi Einaudi nel 1950 a Bentivegna restò chiusa nel classico cassetto fino al 1982, quando il ministro della Difesa socialista Lelio Lagorio la consegnò, finalmente, al diretto interessato.
Anche allora le polemiche riesplosero, segno che l’attentato non era considerato un gesto eroico in maniera unanime.
L’anno precedente Friedl Volgger, giornalista ed ex senatore della Südtiroler Volkspartei aveva bollato con parole di fuoco l’attentato e, soprattutto, gli attentatori dei Gap: «Folli fanatici che senza alcuna necessità hanno provocato un bagno di sangue in una compagnia di innocui poliziotti». Volgger non era un revisionista o un filonazista sotto mentite spoglie: al contrario, aveva pagato con due anni di internamento a Dachau il proprio rigido antifascismo.
Un po’ prima, durante il XXI congresso del Partito radicale (1979), Marco Pannella lanciò una delle sue provocazioni iperboliche: le Br, tanto vituperate dal Pci, non erano a suo dire troppo diverse dai gappisti di via Rasella, su cui ricadeva anche la responsabilità morale delle Fosse Ardeatine.
Ancora peggiore la polemica innescata da Norberto Bobbio. Il filosofo, forse sulla scia di Pannella, rincarò la dose e definì, senza mezzi termini, l’attentato un atto terroristico, brutale e inutile. Bentivegna fu costretto a rispondere attraverso l’ancora influente stampa comunista. Ma, a prescindere dall’esito della discussione specifica, un dato era certo: la grande tragedia delle Fosse Ardeatine e, soprattutto, di via Rasella, restava divisiva dopo decenni anche nell’antifascismo resistenziale.
La mancanza di accordo politico su questa tragica memoria, lasciò campo libero alle soluzioni giudiziarie, risolte in maniera traballante (e non brillantissima) dalla nostra magistratura, civile e militare. L’azione di via Rasella era o no un atto legittimo di guerra? Secondo le convenzioni internazionali dell’epoca, no. E ciò spiega le assoluzioni e le condanne miti (inflitte più per l’eccesso dei civili uccisi che per la rappresaglia in sé) della giustizia militare.
Viceversa, per il diritto interno italiano i gappisti erano combattenti legittimi e legittime le loro azioni. Questo il sommario della giurisprudenza, in cui prevale alla fine il diritto nazionale.
Kesserling, Kappler e gli altri: tedeschi tra incudine e martello
E i tedeschi? Messina quasi si diverte a ricostruire il loro ruolo e la loro reazione nello stile di un thriller.
Hitler, raggiunto per telefono nella sua Tana, è furente e categorico: basta troppi riguardi per il Duce, i romani vanno castigati in maniera esemplare. L’ipotesi potrebbe essere una rappresaglia simile a quelle praticate nello scenario balcanico, dove l’esercito tedesco aveva emanato bandi che prevedevano l’esecuzione di cinquanta (o, addirittura fino a cento) civili per un militare colpito.
Al contrario, c’è chi, come il raffinato Eugen Dollman vorrebbe evitare inutili spargimenti di sangue ulteriori e propone di celebrare in maniera solenne i funerali dei 33 caduti, alla presenza dei familiari. La celebrazione sarebbe l’occasione di lanciare un monito alla città: se una cosa del genere si dovesse ripetere le conseguenze sarebbero inenarrabili.
Di questo accordo avrebbe dovuto essere garante il Vaticano. Ma rintracciare papa Pio XII è impossibile e i comandi hanno già deciso: si applicherà una misura più blanda ma sempre cruenta, dieci civili per ogni milite del Bozen ucciso.
Il resto è la terribile storia che celebriamo giustamente ogni anno.
A proposito delle rappresaglie
Sono doverose alcune osservazioni sulle rappresaglie. Questa prassi terribile, al contrario di quel che afferma una certa storiografia facilona e ideologizzata, non è stata una trovata criminale dei soli tedeschi. Ma una misura prevista dalle convenzioni internazionali (in particolare quella di Ginevra del 1907) e praticata più o meno da tutti.
L’esercito germanico la praticò di più non perché vocativamente criminale ma perché era il classico esercito di movimento, addestrato a prendere e occupare territori con un numero relativamente ridotto di soldati. E quindi con grossi problemi nella gestione dei territori.
Dopodiché questi bandi li hanno emessi tutti. Ad esempio, gli Alleati nel Sud Italia (cinque civili per un militare). Peggio ancora i bandi alleati nella Germania occupata, dove i più morbidi furono i francesi (venti per uno), seguiti dai sovietici (cinquanta per uno) e dagli americani (fino a duecento per uno). Queste misure non furono applicate perché non ce n’era più motivo.
Non occorre aggiungere altro.
Un libro che sa di pace
Controversie per un massacro è il bel libro onesto di un giornalista abituato a ragionare sui fatti e a raccontarli con distacco e lucidità. Di questa dote Messina ha dato prova a più riprese, soprattutto nei suoi lavori dedicati alla cancel culture.
Occuparsi di via Rasella e delle Fosse Ardeatine con tanto garbo e rispetto di ricordi e narrazioni tutt’oggi opposte non era facile. Infatti solo uno come Dino Messina poteva riuscirci. In questo caso con un merito in più: prendere la distanza emotiva dal vecchio rapporto giornalistico con Bentivegna.
Un plauso per questa bella lezione di scrittura della memoria è proprio il minimo.
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