Il mito dei Borbone: la polemica tardiva di Andrea Mammone
Lo storico calabrese interviene col suo libro nel dibattito sul revisionismo antirisorgimentale. Ma non tenta quasi il fact checking e propina una lezioncina di storia sociale molto ideologizzata. E peccato che i “terronisti” siano in abbondante riflusso…
Diciamo subito che il cosiddetto mondo neoborb è in riflusso da almeno un paio d’anni. Infatti, da Pino Aprile a scendere, si è ridotto drasticamente lo spazio mediatico per tutti i terronisti.
La seconda: tutto quel che si doveva (e poteva) dire su questo ambiente e, in particolare, sul revisionismo antirisorgimentale a cui si ispira, lo si è già detto.
E allora, che senso ha Il mito dei Borbone (Mondadori, Milano 2024), l’ultimo, recente volume di Andrea Mammone?
Intendiamoci: non è un brutto libro. Anzi: si lascia leggere con piacere e lascia la voglia al lettore di approfondire. Il mito… è un buon riassunto – un Bignami o Bignamino, avrebbero detto gli studenti di una volta – di storia meridionale preunitaria, interpretata sul lungo periodo e, fatto piuttosto originale, da un’angolazione calabrese.
Nulla di strano: l’autore è calabrese doc (per la precisione cosentino), ed è in forza alla Sapienza di Roma come storico dopo aver insegnato Storia contemporanea e Storia dell’Europa a presso la Royal Halloway University of London.
Radici e background collimano.
A questo punto, procediamo con ordine.
La polemica fuori tempo di Andrea Mammone
Nell’introduzione a Il mito… Mammone azzecca due aspetti del problema.
Il primo è la particolare narrazione dagli autori neoborb: «Essi guardano solo ai “primati” locali, preferendo glissare sui problemi della popolazione negli anni borbonici, e ciò è centrale per comprendere la parzialità di alcune loro ricostruzioni storiche». La solita critica che si rivolge alla tendenza, abusata dai revisionisti antirisorgimentali, a ridurre la storia a fattariello.
La critica è doverosa, ma deve comunque tener conto di un fatto: la storia non è solo analisi, decostruzione e contestualizzazione, ma anche racconto. Sul racconto, che assolve comunque una funzione importante sull’immaginario collettivo, si fondano, inoltre, gli usi pubblici della storia (e i relativi abusi). Ora, è vero che gli autori neoborb hanno fatto una serie di abusi. Ma non si può non riconoscergli il merito di aver risvegliato una passione altrimenti sopita per la narrazione storica. E di aver stimolato gli storici professionisti in tale direzione.
Il secondo aspetto del problema è contenuto in una citazione da un articolo di Gigi Di Fiore, firma storica de Il Mattino e autore di punta del revisionismo antirisorgimentale. A dicembre 2023, Di Fiore aveva proposto «di mettere fine all’ossessione del “neoborbonismo” che, negli ultimi anni, ha assillato qualche docente universitario, influenzando il dibattito sulla nostra storia del Risorgimento. Penso sia ora di tornare alla ricerca storica pura, abbandonando l’incubo di dover rintuzzare le tesi neoborboniche».
Al netto della capziosità (gli storici professionisti hanno provato a ignorare le sparate neoborb e hanno iniziato a rispondere quando non ne potevano più fare a meno) le dichiarazioni del giornalista napoletano vanno lette in controluce: sono l’indice del riflusso (i maligni direbbero reflusso) in cui è finita l’intera area.
Infatti, dopo il cambio di direzione de Il Mattino e la crisi de La Gazzetta del Mezzogiorno – i principali media mainstream che garantivano visibilità ai suddisti – dopo l’obsolescenza di qualche vecchia gloria (Lino Patruno), la presenza neoborbonica nel dibattito pubblico è scemata in maniera esponenziale.
Peggio ancora in politica, dove le performances del Movimento 24 agosto-Equità territoriale, il partitino di Pino Aprile, e di altre siglette non hanno sfiorato la soglia della rilevanza.
E a proposito di Aprile c’è da dire che i tempi del successo di Terroni sono lontani.
Tuttavia, di tutto questo bailamme, che ha avvelenato parte dell’opinione pubblica del decennio scorso restano molte scorie tossiche, che continuano a inquinare il senso comune, anche in strati sociali non proprio digiuni culturalmente.
Queste tossine non promanano tanto dai presunti primati (il problema, semmai, è la logica con cui ne hanno parlato i neoborb). Ma derivano soprattutto dall’incredibile sequenza di fake con cui, a partire da Antonio Ciano e Gennaro De Crescenzo per proseguire con Aprile, i cosiddetti revisionisti hanno bombardato l’informazione e vellicato i bassi istinti da frustrazione di parte del pubblico meridionale. Riguardano, cioè, i cosiddetti complotti, le presunte violenze e le stragi, prossime al genocidio, che avrebbero accompagnato l’unità nazionale.
Per smentire queste fake non basta una lunga lezione di storia, quella che fa Mammone. Una lezione, tra l’altro basata più sulla storia sociale ed economica che su quella politica e militare (eppure il Risorgimento fu, come tutte le rivoluzioni, soprattutto un fatto politico e militare…). Serve il semplice fact-checking, con cui lo studioso calabrese si sporca poco le mani.
Il mito… è un libro che arriva tardi e non troppo bene su questa polemica.
Poche smentite e grosse lacune
Il calabrocentrismo della ricerca di Mammone è in parte un limite. Infatti, l’autore mette a fuoco un argomento, ovvero la storia della ferriera di Mongiana e, con molta correttezza, smantella parecchi luoghi comuni neoborb.
Dimostra, con abbondante documentazione, come questa ferriera non fosse una struttura all’avanguardia e come questo tentativo di industrializzazione non desse particolari vantaggi alla Calabria, ieri come oggi fanalino di coda. Peccato solo che questa ricostruzione non sia proprio inedita, visto che ne hanno già scritto in tanti, anche in rete (e gratis).
Per restare al calabrocentrismo, Mammone canna alla grande (volontariamente?) il brigantaggio del profondissimo Sud. Peccato: quello calabrese è il brigantaggio dalle caratteristiche più criminali e meno politiche, quindi in grado di smentire le tesi neoborb. Inoltre, lo studioso anglo-cosentino salta a piè pari la lunga polemica su Cesare Lombroso e il presunto razzismo lombrosiano, nata in seguito alla vicenda del cranio del povero Giuseppe Villella.
La lacuna, in questo caso, è notevolissima: la vicenda di Villella ha ispirato una bizzarra contesa giudiziaria tra l’amministrazione comunale di Motta Santa Lucia, sostenuta e istigata dal Comitato tecnico-scientifico “no Lombroso” e il Museo Lombroso di Torino.
A questo processo ha messo fine nel 2019 la Cassazione, per fortuna a favore del Museo. Ciononostante, la vicenda ha lasciato strascichi. Il più recente risale al 2021 e ha avuto per protagonista l’ex parlamentare pentastellato lucano Saverio De Bonis, che ha tentato di cavalcare le istanze dei no Lombroso.
Era davvero chiedere troppo a Mammone di dedicare due righe a questa storia che è emersa sulle cronache e, comunque, ha una sua importanza, visto che tocca anche le tante polemiche sul razzismo antimeridionale, di cui lo studioso si occupa solo con riferimento alla vecchia Lega bossiana?
Un’altra serie di lacune sta nell’uso di alcune fonti di storia economica. Ad esempio, Emanuele Felice, citato ne Il mito… a proposito dei divari regionali dell’Italia preunitaria. A proposito di Felice, sfugge davvero il motivo per cui Mammone si è limitato a citare alcuni vecchi articoli dell’economista abruzzese e abbia saltato Perché il Sud è rimasto indietro (Il Mulino, Bologna 2014), che resta uno dei testi chiave del nuovo meridionalismo. Peccato davvero: in questo bel volume, Felice integra le tesi economiche sui divari con una nozione squisitamente politica. Cioè la distinzione tra istituzioni inclusive, che sono prevalse al Nord e hanno agevolato il decollo economico del Paese, e istituzioni estrattive, che sono prevalse al Sud e ne hanno causato la stagnazione e poi la regressione.
Sempre a proposito di divari regionali, è ancora più vistosa l’omessa citazione dei lavori di Vittorio Daniele e Paolo Malanima, che interpretano la disparità tra Nord e Sud sulla base di criteri rigorosi di geografia economica. Tuttavia, c’è da dire che citare i due economisti calabresi sarebbe risultato problematico per Mammone: le loro tesi contrastano non poco col canone progressista, che è la croce (e per gli estimatori la delizia) de Il mito….
La forzatura ideologica di Andrea Mammone
Il problema de Il mito… è essenzialmente uno: la contrapposizione del canone progressista di Mammone a un presunto canone reazionario, che sarebbe il dop dei neoborb. Di fronte a questo dualismo (l’eterno destra vs sinistra) tutto il resto sembra scemare, compreso il fact checking, per cui l’autore crede che basti la sua narrazione di lungo periodo.
Che sia così, lo provano due fattori: le fonti, innanzitutto, e poi Gli alfieri del re, l’ottavo capitolo del libro, dedicato ai rapporti tra una parte della destra napoletana e di quella reazionaria e il neoborbonismo. O meglio ancora, l’Antirisorgimento.
Sotto l’aspetto delle fonti, balza all’occhio un dato vistosissimo: grazie alla sua lettura calabrocentrica, Mammone privilegia essenzialmente due autori, Augusto Placanica e Gaetano Cingari, senz’altro padri nobili e storici imprescindibili ma anche dei classici di una certa visione progressista. Fin qui, nessun problema. Stesso discorso per le citazioni di Marta Petrusewicz, la fonte più attuale. Peccato per alcune omissioni (Luca Addante, ad esempio) e per altre citazioni di autori di spessore più ideologico che scientifico (Enzo Misefari).
Ma ne Gli alfieri del re il discorso di Mammone perde lucidità: parte senz’altro da cose vere per suggerire legami politici indimostrabili. Dunque, è vero che L’Alfiere, storica rivista culturale alle origini del revisionismo borbonista, fu una sorta di laboratorio culturale, in cui vari esponenti della destra reazionaria (ad esempio, il Pino Rauti vecchia maniera) esercitavano la critica al Risorgimento assieme a revisionisti napoletani o, addirittura, a mostri sacri della desta culturale come Julius Evola.
È altrettanto vero che personaggi di confine tra destra radicale e neoborbonismo come l’ecletticissimo (e indimenticabile) Angelo Manna si erano fatti le ossa nel Msi. Ma ciò non basta a provare che l’Antirisorgimento (per citare la felice espressione di Maria Pia Casalena) derivi a senso unico da quella parte di destra tradizionalista che faceva parte del mondo neofascista.
Quest’ultimo, al contrario, aveva una forte e prevalente matrice nazional-patriottica e, se si passa l’espressione, di sinistra, che derivava dall’esperienza traumatica di Salò.
Dire che i ragazzi di Salò avevano nello zaino i libri di Carlo Alianello è solo una suggestione, tra l’altro non suffragata neppure da indizi, che non inficia un dato evidente: la Repubblica Sociale Italiana, si presentò sempre come un’esperienza di sinistra rivoluzionaria. Fu senz’altro propaganda, ci mancherebbe.
Ma anche la propaganda merita il suo rispetto: è il modo in cui un soggetto politico si racconta e vuole farsi percepire.
Il legame tra buona parte di fascismo, neofascismo e postfascismo e Risorgimento ha radici solidissime proprio nell’intellettualità del regime. Bastano, al riguardo, lo storico Gioacchino Volpe, il filosofo Giovanni Gentile e il giurista Alfredo Rocco?
Una tesi forzata? Forse. Ma non più di quella, giellista e poi togliattiana, secondo cui la Resistenza sarebbe la realizzazione del vero Risorgimento.
Invece esiste anche un Antirisorgimento che ha saldissime radici nella sinistra più nobile e che, forse per questo, è risultato più influente nella cultura italiana del dopoguerra. Ci si riferisce a due gigantissimi: Antonio Gramsci (che Mammone cita pochissimo e male) e Piero Gobetti (che non figura affatto ne Il mito…).
In particolare, la lettura gramsciana del Risorgimento, filtrata nella monumentale Storia del brigantaggio dopo l’unità (Feltrinelli, Milano 1966) di Franco Molfese, riappare, in maniera tamarra, in Terroni e Carnefici (Piemme, Milano, rispettivamente 2010 e 2016) di Pino Aprile e – decisamente con più classe – un po’ in tutte le controstorie di Gigi Di Fiore.
Ora, è vero che – forse per scelta – Mammone parla pochissimo di brigantaggio. Però è altrettanto vero che cita ogni tre per due, soprattutto per criticarlo, Gigi Di Fiore. Possibile che, dopo aver fatto il test del Dna ad Aprile e spulciato vari libri del giornalista napoletano, non si sia accorto dei riferimenti – diretti e indiretti e comunque continui – a Gramsci?
Ad analizzarlo a fondo, il neoborbonismo risulta una specie di mostro post ideologico che ricombina elementi di destra e di sinistra in perfetto disordine e solo con una bussola: la convenienza di certi scrittori. Attribuirne la colpa a una sola cultura politica, come fa lo storico cosentino, è quantomeno un azzardo. Tuttavia, Mammone cita il solo Nicola Zitara come esempio di borbonismo di sinistra e quasi come se fosse l’eccezione alla regola reazionaria (che invece, si è dimostrato, non esiste).
Un libro inutile
Concentriamoci su Il Mattino, che per anni ha propagato tesi suddiste e neoborb, grazie a due firme di tutto rispetto: Gigi Di Fiore e Marco Esposito, di cui Mammone cita il trascurabile Separiamoci (Magenes, Milano 2012), ma salta Zero al Sud (Rubbettino, Soveria Mannelli 2018) e, soprattutto, Fake Sud (Piemme, Milano 2020).
In quest’ultimo volume, il giornalista economico fa un parziale passo indietro rispetto a certe tesi e, soprattutto, prende le distanze da Aprile e De Crescenzo.
Di Fiore, invece, ha lasciato le controstorie e si occupa d’altro. E, con un po’ di serenità in più, riesce a dare un’ottima prova delle sue doti di ricercatore e divulgatore di storia.
Ancora: Aprile, dopo aver rieditato i propri libri, è in progressiva eclissi e, anche a livello politico (tolto qualche incarico random) non se la passa benissimo. Infatti, il suo partitino non solo non è decollato ma è dilaniato da guerre intestine finite in Tribunale.
Neppure l’approvazione dell’autonomia differenziata è riuscita a galvanizzare quest’area, più rumorosa che incisiva.
Ma per Mammone questa involuzione non sembra quasi avvenuta. Lo studioso cosentino non sbaglia solo i tempi ma anche i modi: una grossa lezione di storia economica e sociale non è una risposta a chi ha comunque saputo affabulare una narrazione.
Né si può dire che il fact checking non tocchi agli storici: si pensi al notevole I prigionieri dei Savoia (Laterza, Bari 2012) in cui Alessandro Barbero smantella la leggenda nera neoborb sul forte di Fenestrelle. Nell’ultimo capitolo, La miseria della storiografia, lo storico torinese si scatena in una verifica serrata del revisionismo antirisorgimentale. Le trenta pagine di questo capitolo valgono un intero volume.
Sempre per restare al fact checking vale davvero la pena citare altri autori, accademici e non, che nello scorso decennio hanno demolito vari capisaldi dell’Antirisorgimento. Li citiamo alla rinfusa (e ci si scusa per le eventuali, inevitabili omissioni): Silvia Sonetti, Juri Bossuto, Giancristiano Desiderio, Marco Vigna, Maria Teresa Milicia, Renata De Lorenzo, Paolo Macry, Giuseppe Ferraro e via discorrendo.
Di più: la ripresa del dibattito sul Risorgimento ha anche propiziato i lavori importantissimi di Carmine Pinto, che aggiorna la storia del brigantaggio, altrimenti rimasta a Molfese.
In tutto questo, lo studioso cosentino interviene con un libro incompleto e indeciso. Il mito… non è un saggio accademico (troppo breve e non abbastanza documentato) né un pamphlet (è privo di mordente e di verve). Inoltre, il libro non ha un bersaglio né argomenti davvero centrali e ben definiti.
È una lezione di storia contemporanea di circa 140 pagine note escluse, che non aggiunge una virgola a un dibattito in buona parte concluso.
Ma serviva davvero?
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Intervento articolato e ricco di notazioni acute, alle quali il libro comunque ha dato occasione e quindi ha avuto un suo rilievo. Occorre chiamare a raccolta operativa, costruttiva e decisa gli studiosi, le studiose serie, le istituzioni, i cittadini e le cittadine meridionali di buona fede e ragionevoli, esposti a queste posizioni neoborboniche falsificate tossiche civilmente e che hanno un elementare senso civile e patriottico e di minimo, onesto rispetto della verità storica, quale è quella assodata da decine di migliaia di rigorose ricerche nazionali e internazionali sul Risorgimento (Italiano (1789-1799-1918), l’unico periodo veramente luminoso di dignità civile e di modernità della millenaria storia della penisola dopo la fine della civiltà romana su basi greche. Prezioso è l’allargamento della visuale all’Antirisorgimento di sinistra, in particolare comunista, ma anche spesso socialista, data la comune origine ideologica marxista.
È quasi assente, mi pare, nel dibattito, e mi permetto di aggiungere, il ruolo che la chiesa cattolica clericale ha avuto come protagonista fondamentale diretta dal 1789 in poi con le sue tecniche collaudate di fanatizzazione di massa e la lotta continua che essa ha portato avanti fino ad oggi, fino ad ora, a partire dalla centrale vaticana, ai vescovati, alle parrocchie, ai monasteri, ai seminari, alle associazioni cattoliche locali, a livello meridionale da Terracina e Abruzzo alla Sicilia contro il Risorgimento e la sua memoria. È un lato scoperto della ricerca storiografica e del dibattito civile. Grazie !