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Giorgio Pisanò: la vita avventurosa del giornalista “contro” che sfidò la Prima Repubblica

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Il libro di Luca Bonanno colma un vuoto che dura da trent’anni. Rivive mezzo secolo di passioni politiche e amore per la cronaca nella biografia dedicata all’ex senatore del Msi

Se volete sapere chi era Giorgio Pisanò, potrebbero bastare alcune importanti voci dedicate a lui nel web. In particolare, quella faziosissima di Wikipedia, compilata quasi esclusivamente su fonti vetero-antifasciste. O quella, al contrario documentatissima, scritta dallo storico Giuseppe Parlato per Treccani.

Al contrario, se volete approcciare un ritratto completo di questa figura complessa, non potete proprio evitarvi almeno una buona sfogliata a Giorgio Pisanò. Soldato, giornalista, politico (Eclettica, Massa Carrara 2023), la corposa biografia dedicata dallo studioso monzese Luca Bonanno allo storico direttore del Candido e senatore missino.

Con questo ponderoso volume, Bonanno colma il classico vuoto, per almeno due motivi, entrambi meritori.

Innanzitutto, perché il libro mette a disposizione del lettore una notevole massa di documenti che riguardano almeno un cinquantennio di attività professionale e politica di Pisanò. Questo cinquantennio coincide (e non potrebbe essere altrimenti) con tutti gli sviluppi più importanti della destra italiana, di cui il giornalista di Ferrara fu uno degli esponenti più significativi.

La copertina di Giorgio Pisanò. Soldato, giornalista, politico

Il secondo motivo riguarda proprio la destra italiana, politica e culturale, che è poi la prima responsabile di questa rimozione. Personaggio scomodo per una certa sinistra (quella attaccata più pervicacemente alla mitologia resistenziale), Pisanò è diventato il classico scheletro nell’armadio per una destra che si pretendeva postfascista senza aver fatto mai veramente i conti col fascismo in maniera dignitosa e civile.

Giorgio Pisanò: la strana riscoperta

Il primo step ha un autore: Massimo Fini, che iniziò a riesumare Pisanò a inizio millennio, quando Giampaolo Pansa impazzava col suo Il sangue dei vinti (prima edizione Sperling & Kupfer, Milano 2003), il primo testo di revisionismo pop del millennio.

Il refrain finiano iniziò come frame brevissimo in una vecchia (e introvabile) puntata del Maurizio Costanzo Show e poi divenne un mantra: quando queste cose le scriveva, meglio e prima, Pisanò nessuno le calcolava…

Già: il giornalista milanese – che tra l’altro collaborava sotto pseudonimo al Candido – omaggiò in maniera tardiva e coraggiosa un maestro dimenticato. O meglio, non del tutto: la casa editrice milanese Il Saggiatore, approfittando del successo di Pansa, aveva appena rieditato di Pisanò Io fascista (prima edizione Il Saggiatore, Milano 1997), a sua volta riedizione postuma di La generazione che non si è arresa (Pidola, Milano 1964), durissimo (e a tratti toccante) racconto autobiografico del dopoguerra visto dalla parte dei vinti.

Lo stesso Pansa, che aveva saccheggiato Pisanò menzionandolo il meno possibile (come tra l’altro si usa tra giornalisti), riconobbe al compianto collega i doverosi meriti in alcuni lunghi capitoli de La grande bugia (Sperling & Kupfer, Milano 2006).

Massimo Fini

Dopodiché, a sdoganamento – finalmente – avvenuto, il giornalista ferrarese ebbe un altro riconoscimento postumo: l’alta affidabilità che si attribuisce alle fonti storiche serie. Infatti, la Storia della guerra civile in Italia 1943-1945 (Fpe, Milano 1965) è considerata un testo affidabile a cui hanno attinto storici di varia estrazione, a partire da Giuseppe Parlato.

Giorgio Pisanò: la strana rimozione

Ma il problema di Pisanò non fu la riscoperta tardiva (e neppure troppo), bensì la rimozione precoce, iniziata pochi anni prima della sua morte all’interno di quella stessa destra a cui pure aveva dato tantissimo.

I motivi di questa rimozione si capiscono benissimo dalla lettura in controluce degli ultimi capitoli della biografia di Bonanno. Come tanti missini di lunghissimo corso, Pisanò si trovò orfano di Giorgio Almirante, che negli anni ’70 gli aveva aperto le porte e, soprattutto, le liste del partito.

Come giustamente dice il biografo, Pisanò fu un missino ortodosso e inquadrò la sua ortodossia nella fedeltà alla linea almirantina, che difese a spada tratta fino all’ultimo congresso, anche attraverso polemiche dure e gustose, come quella con l’eretico Beppe Niccolai, riportata nel dettaglio da Bonanno.

Pisanò si definì fascista fino all’ultimo. Detto altrimenti, rivendicò la memoria di Salò e del suo combattentismo e la vocazione sociale dell’ultimo Mussolini.

Giampaolo Pansa

Tutto lascia pensare che il senatore missino, giunto a fine carriera, non accettasse il tentativo di Gianfranco Fini di azzerare gradualmente il retaggio neofascista in direzione di una destra liberal-conservatrice. Forse il direttore del Candido avvertiva una forte differenza tra i progetti almirantiani di creare una destra che andasse oltre e le iniziative dell’ormai ex delfino, che navigava a vista.

Magari nelle ultime, feroci polemiche avrà pesato un ulteriore elemento: l’incapacità di parte della vecchia guardia (Pisanò incluso) di cogliere i cambiamenti epocali innescati dalla fine della Guerra Fredda, che aveva travolto pure il mondo neofascista, funzionale anch’esso alla logica bipolare della contrapposizione tra blocchi.

Fatto sta che le polemiche feroci che accompagnarono l’ultima provocazione dell’ex senatore (la creazione del Movimento fascismo e libertà) e quindi il suo abbandono del Msi, determinarono la rimozione dell’opera di Pisanò, ripresa negli anni successivi anche dall’editoria mainstream.

E qui si apre un bel paradosso: il Msi di quegli anni si salvò dall’estinzione elettorale cavalcando la questione morale esplosa in seguito a Tangentopoli. Eppure molta di quella classe dirigente di destra, in parte miracolata oltre i propri meriti dal crollo della Prima Repubblica, fece finta di scordare che gran parte della campagna moralizzatrice missina era figlia di quasi un ventennio di inchieste giornalistiche, condotte da Pisanò dentro e fuori il partito. Detto altrimenti: senza il Candido e i suoi scoop ferocissimi, difficilmente ci sarebbe stato il partito delle mani pulite

Giorgio Almirante

Ma tant’è: «Questi hanno avuto un culo così», avrebbe detto di Fini e dei suoi qualche anno dopo un altro brillante ex, Tommaso Staiti di Cuddia. E i culuti, è noto, non hanno troppa memoria.

Pisanò Vs Mancini: le verità di Bonanno

I calabresi over 60, di destra e non, si dividono in due categorie: quelli che leggevano il Candido (spesso di nascosto) e ne approvavano le battaglie e quelli che lo leggevano e lo rifiutavano in blocco, il più delle volte in nome di un antifascismo formale.

Ci si riferisce alla durissima inchiesta del Candido dei primissimi anni ’70 sugli appalti dell’Anas e, quindi, sul presunto sistema corruttivo che avrebbe fatto capo a Giacomo Mancini, all’epoca segretario del Psi e più volte ministro (soprattutto ai Lavori pubblici) dei governi di centrosinistra.

Inutile ripercorrere la storia di questa inchiesta, raccontata più volte e da più fonti. Semmai è importante concentrarsi su alcuni elementi evidenziati da Bonanno sulla base di un’enorme massa documentale.

Diamogli un’occhiata.

Innanzitutto, l’inchiesta di Pisanò non fu eterodiretta o, peggio, prezzolata, come hanno sostenuto molti difensori dell’ex ministro ed ex sindaco di Cosenza. Al contrario, dimostra Bonanno, nacque all’interno di un’altra campagna giornalistica, sempre del Candido: quella a favore dei moti di Reggio Calabria, esplosi con violenza nel 1970.

Pisanò, racconta il biografo, apprese da ambienti reggini (tra l’altro vicini al Psi) i malumori nei confronti di alcune pratiche attribuite al big cosentino. Quindi, consapevole delle future grane giudiziarie, chiese i documenti necessari e innestò la quarta.

Giacomo Mancini

Inoltre ribadisce Bonanno, Pisanò non ebbe grandi grane in seguito alle numerosissime querele intentate (legittimamente) da Mancini. Il brutto incidente col produttore cinematografico Dino De Laurentiis (in realtà un trappolone teso al giornalista ferrarese e a suo fratello Paolo da ambienti vicini al big socialista) finì col classico nulla di fatto. E l’unica condanna Pisanò la subì per un fatto assolutamente secondario, con una pena minima.

Al contrario, Mancini risultò sfiorato dalla magistratura, ma nel suo caso il Parlamento fu salvifico.

Infine, l’inchiesta di Pisanò non ebbe alcuna smentita giudiziaria, quindi mantiene un suo forte valore storico e, almeno, due record. Innanzitutto, il Candido fu il primo giornale a occuparsi in maniera spinta di vicende calabresi dalla potenziale risonanza nazionale. Perché la Calabria ottenesse di nuovo tanta attenzione mediatica si sarebbero dovuti attendere le incursioni di Michele Santoro e della sua Anno Zero. In seconda battuta, Pisanò anticipò non poco quel che sarebbe capitato vent’anni dopo con Tangentopoli. Peccato solo che avesse troppo personalizzato l’inchiesta e perciò non si fosse reso conto di aver puntato le lenti su un meccanismo normale di finanziamento della politica e non solo su un caso individuale.

Ad ogni buon conto, oggi Pisanò avrebbe ricavato dalla sua inchiesta delle condanne sonorissime a causa del linguaggio violento e volgare, tale da far passare Travaglio per un’educanda e che solo con un eufemismo si potrebbe definire incontinente

Pisanò giornalista tra luci, ombre e chiaroscuri

Ovviamente il percorso giornalistico di Pisanò non si ferma al duello con Giacomo Mancini, che pure è un apice professionale, né alla direzione del Candido.

A monte c’è un importante percorso nella cronaca e nelle inchieste, iniziato alla corte di Angelo Rizzoli e proseguito con esperienze editoriali che oggi si direbbero indipendenti (il settimanale Secolo XX e Pidola).

Giorgio Pisanò con una copia del Candido

L’esperienza del Candido inizia quando Pisanò, reduce anche dall’enorme successo della Storia della guerra civile in Italia 1943-1945, ottiene il permesso entusiasta dall’ormai moribondo Giovannino Guareschi a riprendere il mitico settimanale.

Guareschi morì nell’autunno del 1968, pochissimo tempo dopo l’accordo. Quindi non riuscì a vedere il ritorno in edicola della sua creatura. Il nuovo Candido si rivelò più aggressivo e più impostato sulle inchieste politiche e sulle ricostruzioni storiografiche. L’anticomunismo della versione precedente si potenziò e virò ancor più a destra.

Come molte firme della sua generazione, il giornalista di Ferrara fu spesso garantista nelle faccende private, ad esempio il celebre caso Fenaroli, ma durissimo in tutte le vicende che avevano a che fare con soldi pubblici e politica.

Si dedicò, nel corso dei decenni, a numerosissimi dossier, che spaziavano dagli aspetti più bui della resistenza a scandali contemporanei (ad esempio la vicenda Lockheed).

Gli vengono ancora rivolte due critiche. La prima riguarda i legami coi servizi segreti, la seconda le presunte sovrapposizioni tra giornalismo e attività politica.

Per quel che riguarda la prima accusa, ci sarebbero anche due presunti appigli: il forte legame di Pisanò coi servizi segreti della Rsi, durante la sua giovanile militanza nella Decima Mas, e la partecipazione come relatore al convegno dell’hotel Parco dei Principi sulla guerra rivoluzionaria (1965).

Mino Pecorelli

Con la serenità che consentono i decenni di distanza dagli eventi, si possono dire alcune cose. Innanzitutto, che Pisanò, nei suoi presunti rapporti coi servizi segreti fu comunque piuttosto lineare. Da sempre atlantista e filoisraeliano, ebbe posizioni occidentaliste. Quindi l’eventuale appeasement con le barbe finte influì davvero poco nella sua attività. Anzi, quasi nulla, se si considera che affondò non poco il suo bisturi durante i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, in cui furono setacciati molti big dell’intelligence italiana. Di sicuro non ebbe rapporti rocamboleschi come quelli attribuiti a un altro grande giornalista, Mino Pecorelli, che fu sempre in bilico tra le cordate di potere interne ai servizi.

Giornalisti e barbe finte: buoni e cattivi

Da un punto di vista più generale, sarebbe giunto davvero il momento di farla finita con tanta spazzatura giornalistico-editoriale e, semmai, assumere dei criteri di giudizio più sereni.

Infatti, considerato che molti giornalisti (non solo in Italia) hanno avuto rapporti organici con strutture e uomini dell’intelligence, è necessario fare due distinzioni.

La prima: tra i giornalisti e intellettuali che hanno collaborato, in maniera più o meno organica, con elementi o istituzioni dell’intelligence del proprio Paese (o comunque all’interno dello stesso blocco geopolitico-militare) e quelli che hanno collaborato con servizi di potenze ostili. Al riguardo, sarebbe il caso di risfogliare un po’ le biografie, anche importanti, di vari pezzi grossi dell’informazione. Tra questi, ad esempio, il compianto Sandro Curzi, di cui emergono frequentazioni giovanili e legami forse mai rimossi con gli apparati dell’Europa orientale. In questo caso, quelli come Pisanò o, per fare altri esempi illustri, Giano Accame escono ingigantiti a livello morale anche per un motivo: non hanno mai fatto carriera all’interno di istituzioni pubbliche (la Rai, per capirci) sin troppo generose verso chi proveniva da quegli ambienti editoriali di sinistra finanziati dagli ambienti moscoviti…

Sandro Curzi

Una seconda distinzione, molto più delicata, va fatta tra chi ha operato con servizi e istituzioni occidentali per mettere il proprio talento al servizio del proprio Paese e tra chi, semplicemente, lo ha fatto per affari o per sbarcare il lunario.

Quest’ultimo non è il caso di Pisanò, le cui inchieste, a quasi trent’anni di distanza dalla morte, non risultano smentite.

Giornalismo e politica

Giorgio Pisanò è uno dei pochissimi esempi di dirigente missino che sia riuscito a tornare nel partito.

Infatti, dopo un’esperienza iniziale di dirigente, il Nostro mollò la politica per darsi al giornalismo con ottimi risultati. Almirante lo recuperò alla politica attiva per metterlo in sicurezza sia dalle continue querele sia dalle minacce e dalle aggressioni fisiche, rivolte alla sua persona e al giornale.

Una volta diventato senatore, Pisanò utilizzò Candido anche come tribuna politica. Tuttavia, non trasformò mai il settimanale in un organo di partito o, peggio, in un house organ.

Va da sé: è innegabile una certa circolarità tra l’attività politica di Pisanò e quella della redazione del Candido. E tuttavia, a rivederla col senno del poi, questa circolarità non è nulla di grave, dal punto di vista giornalistico. Al contrario, diventa un documento prezioso per capire la mentalità e la comunicazione di una parte importante della destra.

Né si può rimproverare a Pisanò di aver fatto inchieste su avversari politici per crearsi uno spazio politico. Sarebbe la classica accusa che prova troppo, perché si può rivolgere a chiunque.

Sandro Ruotolo a Palazzo Madama

Con la stessa logica (sbagliata) si potrebbe rimproverare a Sandro Ruotolo di aver fatto inchieste e reportage per decenni allo scopo di diventare prima parlamentare e poi europarlamentare nelle file della sinistra…

«Si muore in piedi»

«Si muore in piedi», diceva Pisanò ormai divorato dal tumore a suo fratello Paolo. L’ex senatore missino si spense nel 1997, quasi alla fine del secolo terribile che aveva voluto vivere da protagonista e controcorrente. O pericolosamente, per dirla con Nietzsche.

La biografia di Bonanno, arrivata circa venticinque anni dopo, mette degli importanti punti fermi nella vicenda complessa del direttore del Candido. Chi vuole persistere in certe leggende metropolitane da ora in avanti ha un carico in più: fare i conti con le argomentazioni e i documenti di questo corposissimo volume. E non è proprio poco.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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