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Bugie Coloniali: la guerra di Alberto Alpozzi alla cancel culture

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Il giornalista torinese ha dedicato tre libri alla storia della presenza italiana in Africa. Viaggi, passioni e guerre. Ma anche personaggi, opere e voglia di costruire un mondo nuovo, che in parte riuscì. I meriti del nostro Paese nel Continente nero in una vicenda di settant’anni tra (molte) luci e (qualche) ombra…

Due domande: ha senso, oggi, riaprire files delicati come quelli sul colonialismo italiano?

Ancora: è possibile superare il complesso colonialista (o, per dirla con Pascal Bruckner, il Singhiozzo dell’uomo bianco), col suo carico di ricordi repressi, rimozioni più o meno coatte e autoflagellazioni?

Infine: si può, finalmente, contestare quella lettura dominante – e praticamente obbligata – che quasi impone a chiunque voglia occuparsi della nostra storia coloniale il ricalco delle opere – palesemente datate, a tratti discutibili e spesso dichiaratamente faziose – di Angelo Del Boca?

La risposta è sì. A tutti e tre i quesiti. Che sia possibile, lo dimostra l’impegno caparbio e certosino di Alberto Alpozzi.

Torinese, classe ’79, giornalista e fotoreporter, Alpozzi ha una lunga esperienza nelle aree di crisi: dai Balcani, al Medio Oriente al nostro Corno d’Africa, non c’è zona a rischio che non abbia affrontato armato di macchina fotografica e taccuino.

Alberto Alpozzi

Autore di molti reportage per testate italiane e case di produzione internazionale, il giornalista piemontese si è specializzato nella storia della Somalia italiana e, quindi, del colonialismo italiano, che ha raccontato a lungo sulle colonne di Storia in Rete e sul suo sito web L’Italia Coloniale.

Non è perciò un caso che il Nostro abbia deciso di offrire ai lettori una sintesi di tanti anni di ricerche. Lo ha fatto con Bugie Coloniali. Leggende, fantasie e fake news sul colonialismo italiano (2021), Bugie Coloniali II. Il colonialismo italiano tra cancel culture, censure e falsi miti (2022) e Bugie Coloniali III. La storia coloniale italiana tra omissioni, negazioni e mistificazioni (2023), tutti e tre editi da Eclettica di Massa Carrara.

Alpozzi vs Del Boca: gli opposti mal d’Africa di due piemontesi

I paragoni, antipatici nella vita quotidiana, possono avere una grande utilità a livello scientifico o letterario.

La differenza più vistosa tra il cuneese Del Boca e il torinese Alpozzi emerge più nel metodo che negli orientamenti. Infatti, mentre Del Boca cerca di superare la narrazione giornalistica per approdare alla storiografia (e non sempre ci riesce), Alpozzi fa l’esatto contrario: cerca di riportare il discorso storico sul piano giornalistico.

Al metodo, va da sé, corrisponde la classica dichiarazione d’intenti. E cioè incidere nel senso comune, e quindi rovesciare gli stereotipi di certa cancel culture (di cui Del Boca è in parte precursore) fin troppo radicata.

Inoltre, Alpozzi evita con grande intelligenza la polemica diretta. Anzi: cita spesso le opere di Del Boca per gestire le polemiche contro terzi. E lo fa con una formula retorica non particolarmente raffinata ma comunque efficace: “Sebbene Del Boca non sia tenero verso l’Italia” ecc.

Le copertine dei tre volumi di Bugie Coloniali

Al di fuori di questi casi, il giornalista torinese non fa alcune menzione ma si limita a confutare con una mole di dati impressionante le tesi ispirate da Del Boca o a ribadire la faziosità di quest’ultimo, di sicuro non proprio adatta a uno storico.

La polemica vincente contro le Bugie Coloniali

Che ci sia necessità di opere divulgative lo dimostra anche la polemica a mezzo stampa dell’autunno 2003, tra Alpozzi e gli organizzatori di Africa. Le collezioni dimenticate, la mostra di Torino dedicata alla storia coloniale italiana. Questa polemica, che poi ha ispirato Bugie Coloniali III, riguardava gli svarioni e le falsità contenuti nei pannelli della mostra.

I quali, tanto per cambiare, ripetevano i classici luoghi comuni sugli italiani violenti, massacratori e schiavisti nelle proprie colonie, in particolare la Somalia.

Insomma, tutto ciò verso cui il giornalista torinese ha polemizzato negli anni.

La polemica, alla fine, si è risolta con le correzioni richieste da Alpozzi e le scuse agli eredi di Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, lo storico governatore della Somalia prima e delle isole dell’Egeo poi.

Scendiamo un po’ nel dettaglio dei tre volumi.

Il colonialismo dal volto umano

Mussolini decora un poliziotto africano, reduce dalla campagna d’Etiopia in occasione del primo anniversario della fondazione dell’impero (Er Puzzone è poco politically correct ma, dicono a Roma, venne bbene). Le truppe coloniali cammellate sfilano davanti al Vittoriale nella medesima occasione. Uno sciambasci eritreo tiene in braccio una bambina italiana.

Asmara durante il periodo italiano

Sono, rispettivamente, le copertine dei tre volumi. E parlano, come tutte le immagini ben contestualizzate, un linguaggio chiaro: il governo italiano non snobba i sudditi coloniali; i soldati indigeni sono parte dell’impero come quelli metropolitani; gli italiani delle colonie non tengono le distanze dagli indigeni. Forse non saremo stati davvero brava gente, ma siamo stati meno peggio delle altre potenze coloniali.

E questo meno peggio Alpozzi lo dimostra pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo.

Ad esempio, attraverso le vicende dei protagonisti, a partire da Francesco Crispi, il vero iniziatore del sogno coloniale, a proseguire per il menzionato De Vecchi oppure Luigi di Savoia, il duca degli Abruzzi.

E non si può evitare la menzione di personaggi minori ma significativi. Come, per fare dei nomi, Vincenzo Filonardi, il console italiano a Zanzibar, che stipulò i primi accordi di protettorato con i sultani somali. Oppure padre Daniele Gorlani, il missionario francescano che traduceva i passi del corano e aveva scritto un sussidiario ad hoc per insegnare l’italiano ai bambini eritrei.

Oppure ci sono i personaggi particolari (e un po’ bizzarri), come Hubert Julian, detto Aquila Nera, il pilota d’aereo afroamericano che si arruolò nell’aviazione Etiope ma, a guerra persa, prima tornò a New York e poi chiese la cittadinanza italiana.

E si potrebbe continuare.

Un imperialismo pacifico ma non troppo

L’Italia si affacciò relativamente tardi nel complesso mondo coloniale. Ma tardi (essenzialmente a partire dal 1890), non vuol dire fuori tempo massimo.

Non a caso, la spartizione delle aree d’influenza in Africa ed Asia era in cima ai rapporti diplomatici tra le potenze europee (e, viceversa, il divieto di interventi europei di tipo coloniale era alla base delle dottrine statunitensi di politica estera).

Fucilieri italiani durante la guerra d’Etiopia

L’Italia, contrariamente a quanto si crede, iniziò a far bottino con la benedizione delle altre potenze coloniali e grazie alla protezione tedesca, che calmierava non poco gli equilibri europei. La nostra avventura, spiega Alpozzi, iniziò in maniera pacifica, con la stesura di tratta di protettorato, che di fatto iniziavano a inserire la Somalia nella modernità.

Di più: per Libia e Somalia si può dire una cosa: furono entrambe creazioni italiane, grazie all’operato di De Vecchi e di Italo Balbo, che riuscì a unificare con una rete stradale imponente Cirenaica e Tripolitania, le due vecchie province strappate da Giolitti all’Impero Ottomano, e le trasformò nella Libia moderna.

Come tutte le potenze coloniali, l’Italia alternò bastone e carota. Ma picchiò di meno e nutrì di più.

L’Italia si impegnò solo in tre veri conflitti coloniali. Il primo fu la guerra italo-turca del 1911 per la conquista della Libia. Il secondo, la guerra di riconquista della Libia, condotta con metodi pesanti prima dall’ultima Italia liberale (al riguardo, fa bene Alpozzi a ricordare che fu il ministro delle colonie liberale Giovanni Amendola a iniziare le repressioni, con i campi di concentramento e l’uso dei gas) e poi da quella fascista. Il terzo fu la guerra d’Etiopia, l’ultima grande conquista di un esercito europeo in Africa.

Opere, leggi e uomini al lavoro

Ma l’aspetto più caratteristico del colonialismo italiano, che ebbe comunque una forte impronta umanitaria e (nei parametri dei tempi) progressista, fu l’enorme quantità di opere pubbliche e l’imponente riordino normativo.

In entrambi i casi, i dati (snocciolati con estrema pignoleria da Alpozzi) parlano da soli. Parlano, per le opere pubbliche, centinaia di chilometri di strade, infrastrutture (ad esempio, la prima ferrovia della Somalia), bonifiche, porti, dighe. Ma, soprattutto, ospedali e strutture sanitarie, che si sono rivelati determinanti nel contrasto a malattie endemiche, infettive e non (due esempi: la lebbra in Etiopia e il tracoma in Libia).

Mogadiscio italiana

Sulla normativa coloniale, c’è poco da discutere: la tradizione giuridica italiana era una garanzia. E diede il meglio di sé nel tentativo di armonizzare in un unico quadro politico tradizioni culturali e religiose diversissime e spesso difficilmente conciliabili (la coesistenza tra musulmani, ortodossi e copti nell’Africa orientale italiana e i diritti della consistente comunità ebraica in Libia).

Tuttavia i fiori all’occhiello delle amministrazioni coloniali italiane furono l’abolizione della schiavitù, iniziata in Eritrea e Somalia ben prima della guerra d’Etiopia, e la creazione in Africa di un diritto del lavoro di tipo europeo, fatto di contratti equi, normative precise e controlli più stringenti di quanto si potrebbe immaginare oggi.

Giusto un paradosso riportato sempre da Alpozzi: Mohamed Issa Trunji, studioso e giurista somalo, racconta che Sheik Hassan Bersane, capo religioso e proprietario di schiavi, si ribellò alle disposizioni governative per timore di perdere le sue proprietà…

Bugie Coloniali: massacri falsi e pogrom veri

È falso che il negus Haile Selassiè sostenesse un nazionalismo anti italiano. Al contrario, il futuro simbolo del panafricanismo, una volta reinsediato sul trono dai britannici, voleva mantenere in Etiopia quelle stesse maestranze italiane che invece gli inglesi espellevano a man bassa.

È vero che le autorità italiane furono protagoniste di repressioni e ritorsioni a volte pesanti (ma in linea con quel che i francesi avevano fatto in Algeria e Marocco o i belgi in Congo). Ma è altrettanto vero che gli etiopi ebbero in più di un’occasione comportamenti criminali: è il caso del massacro di civili italiani e africani nel cantiere di Gondrad, che fu rivendicato da ras Cassa e da ras Immirù.

È vera, ovviamente, la disparità di forze militari tra Italia ed Etiopia. Ma non è vero che l’Etiopia fosse disarmata e quasi inerme, come vuole certa pubblicistica.

Un mercato indigeno nella Asmara italiana

Al contrario, era un Paese molto militarizzato. Forse la principale potenza militare africana: a partire da ras Menelik, tutti gli imperatori e signori della guerra abissini avevano speso moltissimo in armamenti. Quindi non è vera la storia dell’impero pacifico invaso dai predoni italiani.

Risulta una fake totale il presunto massacro di Keli Asayle, che sarebbe avvenuto nel 1926. Invece è vero, purtroppo, il pogrom anti italiano di Mogadiscio, avvenuto l’11 gennaio 1949 con la criminale tolleranza delle autorità di occupazione britanniche.

Peggio ancora, è vero il pogrom antisemita esploso il 4 novembre 1945 nella Libia occupata dal Regno Unito.

Infine (e giusto per dare uno schiaffo doveroso a certa cancel culture), non è vero che il madamato, a cui si è preteso di crocifiggere Montanelli, fu un abuso italiano. Al contrario, era una pratica antica e radicata, nelle culture somala ed eritrea.

Un imperialismo rimosso e “straccione”

Tra tutte le ex potenze coloniali, l’Italia è l’unica ad aver rimosso in maniera quasi brutale il proprio passato in Africa.

Peggio ancora: molta vulgata tende ad appiattire la storia coloniale italiana sul fascismo, come una ennesima responsabilità da addossare esclusivamente a un regime sconfitto.

Ma forse la parola chiave di questa vicenda, durata settant’anni, dalle prime concessioni dell’ultimo decennio dell’Ottocento alla fine del mandato in Somalia, è proprio la sconfitta. In parole povere, è come se le potenze vincitrici avessero imposto l’ennesimo stop a ogni forma di orgoglio nazionale italiano. Parliamo di quelle stesse potenze, Francia e Gran Bretagna, che avrebbero perso i propri imperi nei primi venti anni del dopoguerra, con strascichi di odio non proprio leggeri.

Artiglieri italiani durante la guerra d’Etiopia

Nessuno chiede l’approvazione di leggi “filo-coloniali” e revisioniste sul modello di quelle approvate in Francia nel 2005, che di fatto censurano ogni critica all’imperialismo d’Oltralpe. Ma sarebbe doveroso, da noi, riaprire il dibattito con una produzione storiografica equilibrata e, si spera, meno condizionata dai veleni faziosi di Del Boca e altri storici più celebrati che influenti.

I tre volumi di Bugie Coloniali possono essere un buon punto di partenza per questo percorso. Non dobbiamo, proprio noi, chiedere scusa di essere italiani, dopo aver rappresentato l’aspetto più umano e costruttivo dell’Occidente.

Per saperne di più:

L’Italia Coloniale

Viaggio nella Somalia italiana

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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